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Antonio Castro: Hamas, il piano da 40 miliardi per cancellare la rinascita

di Antonio Castro lunedì 13 maggio 2024

4' di lettura

Ricostruire Gaza. Partendo dalle macerie frutto avvelenato di 7 mesi di bombardamenti. Paradossi di una guerra innescata il 7 ottobre scorso dall’attacco dei militanti di Hamas contro i civili israeliani. Giunti adesso al 220 giorno di conflitto- con diversi livelli di intensità e con 130 ostaggi ancora in mano ai terroristi palestinesi si continua a trattare (ufficiosamente) per spegnere i fuochi del conflitto, riaccendere il dialogo diplomatico tra Gerusalemme e l’ala moderata della famiglie che contano nella Striscia e l’Anp in Cisgiordania.

La certezza è che bisognerà rimettere in piedi (e in sicurezza) mezzo Medioriente. I conti per questo impegno finanziario rotolano come dadi sul tavolo verde. Da quando verrà formalizzato un cessato il fuoco duraturo, da quando Israele riavrà i propri cittadini (o i corpi dei rapiti e deceduti), quando smetteranno di rimbombare i colpi di artiglieria, le raffiche di mitra, il tuono sordo degli esplosivi che i genieri usano per far crollare chilometri di tunnel sotterranei, si potrà cominciare a far di conto. Per il momento rimbalzano pochi numeri certi: le stimate 24mila tonnellate di macerie saranno riversate a mare per fare da basamento frangiflutti alla nuova marina della Striscia. A largo delle acque territoriali palestinesi (comunque oltre le 4 miglia) gli americani stanno assemblando, come fosse un gigantesco gioco di Lego, i pontoni galleggianti temporanei per far sbarcare più rapidamente gli aiuti umanitari. I valichi di Rafah (Sud) e Erez (estremo nord, chiuso dal 1 maggio), non bastano a saziare le necessità di un milione e seicentomila di gazawi. L’agricoltura di sussistenza, la pesca di piccolo cabotaggio, il lavoro da frontalieri appartengono al passato. A Gaza si campa alla giornata. Oggi. Ma domani si dovrà tornare a vivere. Ricostruendo, appunto. E non solo per garantire il futuro della popolazione palestinese. C’è tutta un’area economica che va dall’Egitto alla Giordania, dal Libano ad Israele a soffrire direttamente degli effetti economici del conflitto. Come se non bastasse adesso le scosse finanziarie si propagano fin ai sultanati del golfo. Emirati Arabi e Arabia Saudita stanno portando avanti piani faraonici per convertire le economie locali. Sganciandosi dalla dipendenza economica oggi fondamentale dei carburanti fossili. L’intento dichiarato è di virare verso lo sviluppo di centri finanziari e logistici di snodo internazionale intercettando l’interesse dell’Europa proiettata verso l’Asia e dei giganti asiatici (Cina e India su tutti), che hanno fame di energia per continuare a svilupparsi.

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L’Onu, lo scorso 2 maggio ha stimato a spanne, in 30/40 miliardi di dollari il costo complessivo della ricostruzione della Striscia di Gaza. «Le stime del Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (Undp) si aggirano fino a 40 miliardi di dollari», ha precisato Abdallah al-Dardari, direttore dell’ufficio regionale per gli Stati arabi dell’agenzia. Si tratterà di una sfida « che la comunità internazionale non affrontava dalla Seconda Guerra Mondiale». Il riferimento al Piano Marshall per rimettere in piedi l’Europa è intuibile. Solo che in questo caso bisognerà mettere in sicurezza tutto Medioriente. A volte ci si dimentica del Libano. Beirut, la “Parigi del Medioriente”, è stata trasformata in un groviera dagli scontri portati avanti negli ultimi decenni.


Oggi c’è Hezbollah alla guida del Paese dei Cedri. Il sostegno pirotecnico dato dalle milizie filo-iraniane ai cugini di Gaza ha innescato altre tensioni. Poi c’è la Siria (il Libano ospita 2 milioni di profughi siriani), e il regno di Giordania. Una gran bella macedonia di guai che rischia di risultare indigesta alla stabilizzazione dell’area e ai progetti di sviluppo messi in campo. Senza dimenticare l’Egitto che, a causa degli attacchi diretti contro Israele dei ribelli Houti yemeniti alle navi che transitano per lo stretto di Bab el-Mandeb (Mar Rosso meridionale), sta perdendo milioni di dollari di tasse di passaggio per il canale di Suez (8,8 miliardi di euro, pari a circa 95 milioni di euro al giorno, da quando la crisi è iniziata nel novembre 2023).
Non più tardi di sabato pomeriggio il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, intervistato dalla Cbs, ha sollecitato gli amici di Israele a mettere in piedi un «piano per il governo del dopoguerra a Gaza, altrimenti», ha ammonito, ci sarà «un vuoto che probabilmente sarà riempito dal caos, dall’anarchia e alla fine, di nuovo da Hamas». Blinken, insomma, avverte che senza un piano su chi prenderà il controllo di Gaza dopo la sconfitta di Hamas, Israele «si ritroverà a tenere in mano la situazione di un’insurrezione duratura perché rimarranno molti combattenti armati di Hamas». 

Il piano c’è. E prevede - oltre alla costituzione di una forza multinazionale araba per gestire la prima fase - anche la realizzazione di una nuova zona cuscinetto di 1 chilometro erodendo del 16% i terreni agricoli in prossimità dei confini attuali- secondo le immagini satellitari consultate da Le Monde ma verrebbero a mancare così il 20% delle derrate alimentari prodotte sui terreni dai gazawi prima di settembre 2023. Poi bisognerà «costruire la fiducia», come si sforza di rammentare lo scrittore israeliano Eshkol Nevo, che ha tre figlie, una in servizio con l’Idf fin dalla prima mobilitazione. Quella sì sarà una ricostruzione che partirà da zero.

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