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Francesco Specchia: Pavese, Calvino e Nanda Pivano? L'arte di giocare con le parole altrui

di Francesco Specchia giovedì 16 maggio 2024

3' di lettura

Il mestiere del traduttore, per rigore, sofferenza e senso della solitudine, può essere paragonato soltanto a quello della monaca di clausura, del guardiano del faro e del flâneur a passeggio nelle città notturne.La divinazione delle parole altrui, la sfida a botte di vocabolario e di cartelle da 1800 battute spazi inclusi, resta inevitabilmente anche la personale fascinazione dei grandi scrittori. Una fascinazione cui s’ispirarono molti italiani sulle tracce di San Girolamo il patron dei traduttori il quale, su incarico papale, nel 382 tradusse la prima Bibbia in latino. Ci mise ventitré anni. Ora il tempo del lavoro s’è ridotto a una media di tre mesi, ma dipende dalla case editrici: Giunti, Einaudi, Feltrinelli ma soprattutto Adelphi regolano i tempi di consegna a seconda delle difficoltà dell’opera (provare a tradurre i calembour e le assonanze di certi libri di Ellroy produce lo sforzo titanico di Italo Calvino alle prese con Ifiori blu di Quenau). La passione, però, rimane la stessa. Jorge Luis Borges era un traduttore sopraffino, per dire. Nel corso della sua carriera, tradusse in spagnolo i più importanti scrittori occidentali come Franz Kafka, Virginia Woolf, Herman Hesse, William Faulkner; solo che il suo approccio alla traduzione consisteva in una “felice creativa infedeltà”. Infatti sosteneva che, per farlo risplendere, l’autore originale andasse reinterpretato; sicché, spesso, le sue stesse traduzioni finivano coll’essere ritradotte. Lo stesso valeva per l’insospettabile Haruki Murakami che quando tradusse in Giappone Il Giovane Holden rilanciò il libro nelle classifiche di vendita. Ma restiamo agli italiani.

Cesare Pavese, per esempio, a soli 23 anni – nonostante qualche ingenuità stilistica- tradusse per incarico di Einaudi nel 1932 il Moby Dick di Melville (ritenuto un punto di riferimento, finché non arrivò la traduzione più attuale proprio di Ottavio Fatica), mentre infilava, una dietro l’altra, le traduzioni di A Portrait of the Artist as a Young Man di Joyce, Moll Flanders di Defoe e David Copperfield di Dickens. E fu grazie a lui – come a Elio Vittorini alle prese con Hemingway, Henry James e Jack London, o a Nanda Pivano con la Beat Generation in blocco - che la grande letteratura americana trovò albergo presso la nostra. Da allora, i grandi autori d’Oltreoceano passarono attraverso la personificazione letterarie di Vincenzo Mantovani per Mark Twain, di Delfina Vezzoli “specialista di libri complessi” per Don DeLillo o di Giovanni Arduino che ci ha messo – con l’editor Anna Pastore - una quindicina d’anni ad immergersi nei mondi fantastici di Stephen King, uno che ad ogni libro arricchisce la sua sintassi («Il nostro è un lavoro non solo sulla lingua ma su un universo, quello di un autore di una ricchezza straordinaria»). La traduzione è un’arte fondamentale, è l’espressione di un piacere invisibile. Anche perché la “traduzione editoriale” – come diceva Ilide Carmignani, alter ego italico di Marquez, Neruda e Sepulveda - implica l’essere un po’ linguisti, un po’ speleologi delle altrui emozioni, un po’ rispettosi frati certosini del testo originale. Ecco il motivo della fissazione del critico/giornalista/romanziere Guido Fink per le traduzioni per la radio e la tv italiana di Cyril Tourneur, T.S. Eliot, Eugene O’ Neill e perfino Orson Welles (È tutto vero).

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