Eh, si fa presto a dire “Radical chic”. Si fa presto a dire populismo contro élite. È bastato che Giorgia Meloni – in modalità pre-elettorale- dichiarasse «l’8 e il 9 giugno non saranno i soliti radical chic a parlare ma il popolo. E quello del popolo è l’unico giudizio che ci interessi...». È bastato che la presidente dei Conservatori europei chiedesse il voto dalla tribuna autoironica ribattezzata “Telemeloni” (il disinnesco di tutta la vulgata sul controllo nazifascista della tv pubblica). E bastato che la signora di Chigi ribadisse «Chiamatemi Giorgia e basta: mi hanno chiamata pesciarola, borgatara, ma io sono fiera delle mie radici popolari...».
Be’, ecco, è bastato tutto questo, che l’opposizione si scatenasse- un riflesso pavloviano- nella difesa della supremazia delle élite. Di qualunque tipo di élite, purché di sinistra.
Sicché, la brava Annalisa Cuzzocrea nel suo podcast si sentiva subito toccata nel vivo, e citava il Censimento dei radical chic di Giacomo Papi (un libello divertente e radicalchicchissimo), e commentava: «Credete che ogni persona abbia diritto a studiare a migliorarsi qualunque sia la propria condizione di partenza? Siete radical chic perché non rispettate la sana ignoranza del popolo e avete desideri intellettualoidi». Che poi, cara Annalisa, al netto della battuta, risulta un po’ un modo per dicotomizzare il mondo: gli aspiranti laureati a sinistra, le capre ignoranti col terrore della sintassi a destra. «Tutto ciò che è lontano dall’ammasso significa essere elitari e radical chic», chiosava Annalisa rivendicando tutta la portata intellettuale del ruolo del radical chic (con inevitabile citazione di Michele Serra che bacchettava Tom Wolfe).
BUTTALA SULL’ANTIFRASTICO - Dopodiché, Marco Belpoliti su Repubblica riprendeva il concetto di” Telemeloni” buttandola sull’antifrastico, qualunque cosa intendesse significare. «Mi accusate di avere occupato la televisione di Stato? Ebbene allora la faccio direttamente io, come dite voi, la televisione meloniana, e me la intesto e ironizzo sulla vostra accusa di propaganda.
Tiè. Confermando la sua attitudine alla recitazione, la presidente del Consiglio usa l’arma del rovesciamento per elidere un’accusa che è quanto mai circostanziata (...) Intanto ti dico che non è così, e poi ci ironizzo sopra...», scriveva il pregiato Belpoliti.
Che poi, qui, la chiave di tutto resta davvero l’ironia, curiosamente intesa come dono degli dei a sinistra e come gretto sarcasmo a destra. Di qualunque tipo di destra.
Fratelli d’Italia rende virale un video in cui, con cadenza fortemente romanocentrica, mostra varie categorie produttive compresi un cameriere che porta il caffè («Io voto Giorgia perché è una del popolo») e uno studente («Io voto Giorgia perché è una di noi e non s’è montata la testa»). Forza Italia alla sua convention invita un drappello di popstar casarecce tra i quali spicca il pensiero politico dei Ricchi &poveri, e fonda la sua campagna elettorale sull’inesorabile ricordo di Berlusconi (molto pop, poppissimo). La Lega si lega alla vecchia, cara cartellonistica; con argomenti che variano dalla “Difesa della casa delle auto degli italiani” all’immagine di un tizio che beve da una bottiglia d’acqua senza tappo, contrapposta a una bottiglia col tappo che s’infila fastidiosamente nelle narici, al motto di «Più Italia, meno Europa». Il centrodestra, insomma, imposta la sua variegata campagna elettorale.
E subito, dal centrosinistra partono, appunto, le accuse di «populismo», laddove l’argomento dei nazifascisti alle porte d’Europa non è più à la page, considerata la cacciata della filohitleriana Alternative für Deutschland dal radar delle famiglie europee della destra.
Populismo.
Eppure, anche il populismo, nella sua accezione originaria di «socialismo rurale», in opposizione al burocratismo zarista e all’industrialismo occidentale, col popolo sovrano, be’, possiede un suo fascino. E così la campagna elettorale si polarizza sempre più tra destra e sinistra; e la semantica del voto ci consegna davvero la fotografia plastica del popolo contro le élite.
Elly Schlein, simpaticamente rende noto di avere avuto «voti bassi in ginnastica e in economia domestica» (in un’esclusiva scuola svizzera), mentre teme che i suoi interpretino le personalizzazioni elettorali come deriva autocratica; e toglie il suo nome dal simbolo e punta, per esempio, su manifesti elettorali concentrati su temi generici. «Dalle liste d’attesa per una visita medica con la sanità pubblica, le critiche alla destra per la criminalizzazione dell’immigrazione, la necessità del salario minimo, il cessate il fuoco a Gaza» spiega al Post Dino Amenduni, docente di comunicazione politica all’università di Perugia «per quanto coerenti con lo stile del partito, questi manifesti sono stati criticati perché ritenuti anonimi e non molto chiari e diretti». Sono, codesti, temi da pubblico dibattito, incapsulati nella battaglia delle battaglie schleiniana, quella per i diritti civili: una proposta elettorale giusta per quanto, appunto, elitaria.
LA SOLITA EGEMONIA - Il risultato del tutto? La polarizzazione si acuisce sull’informazione e sull’egemonia culturale, sulla chat della Resistenza di Massimo Giannini e la guerra di Gaza vista come guerra d’ideologie. Sicché, ecco tornare prepotente la sindrome della Terrazza del film di Ettore Scola, il testardo brivido snob di superiorità; lo zefiro ideologico che carezza sempre le stesse facce e attraversa sempre gli stessi territori, dai Parioli a Roma Nord, fino a Capalbio. Mai una capatina a Coccia di Morto, come avrebbe voluto la Cortellesi dei tempi. Sicché, cari conservatori sembrano dire i complessati eroi di Scola- la destra incolta va discussa, combattuta, al limite isolata. Gli elementi sono questi: il pubblico de La7 (che è pure di destra, checchè ne dicano) e Scurati; Saviano che richiama Sartre e Israele denunciato dal Tribunale dell’Aja; i radical chice i populisti: nel grande tourbillon, alla fine, chi ne esce esausto è l’elettore...