Sembra incredibile, al termine di una campagna elettorale come quella che abbiamo visto, eppure ci sono vicende che ti fanno appassionare alla politica. La vita vera, quella con la gioia e le lacrime non ad uso delle telecamere e dei social network, riesce ancora a irrompere nei notiziari e a stravolgerli. Ieri si è compiuta la storia che non ti aspetti, quella di dieci piccoli haitiani, di età compresa tra i due e i dieci anni, e delle famiglie italiane- padri e madri, eroi normali dei nostri tempi che per adottarli hanno combattuto contro tutte le avversità e le burocrazie internazionali.
Haiti fu la seconda colonia delle Americhe, dopo gli Stati Uniti, a dichiararsi indipendente. Successe nel 1804. Avrebbe dovuto essere l’avvento di un periodo di libertà e prosperità, fu l’inizio di un viaggio nell’orrore che dura da allora, tra guerre civili, terremoti ed epidemie. Qualunque classifica mondiale di benessere e civiltà si prenda, agli ultimi posti c’è questo Stato caraibico.
Lì oggi spadroneggiano le bande criminali, due mesi fa l’aeroporto di Port-au-Prince è stato chiuso.
Quasi tutti i Paesi occidentali hanno bloccato completamente le procedure di adozione: non ne sono state iniziate di nuove e quelle avviate sono state congelate. Nel resto del mondo civile, oggi ci sono decine di famiglie che erano a un passo dall’adottare un bimbo haitiano e non sanno se riusciranno mai ad abbracciarlo.
Le procedure di adozione internazionale, quando vanno bene, durano tre, quattro anni. Molte delle famiglie che fanno questa scelta vengono da tentativi falliti di procreazione assistita: un altro lungo calvario alle spalle. Pensando a loro e a quei bambini, le autorità italiane hanno preso una strada diversa, più difficile: hanno deciso di fare il massimo sforzo per portare qui i piccoli haitiani la cui adozione era stata già decisa. Un’impresa possibile solo con mezzi eccezionali: oltre alle strutture di palazzo Chigi, all’unità di crisi della Farnesina e ai canali diplomatici, sono stati impiegati i servizi segreti e un volo di Stato.
Non c’era altro modo per sperare di tirare fuori quelle anime innocenti dall’inferno che è oggi Haiti: provengono da cinque orfanotrofi diversi, il direttore di uno di questi è stato assassinato e la stessa fine hanno fatto due volontari che li assistevano. C’era il pericolo che i piccoli venissero rapiti e fosse chiesto un riscatto, e non era la cosa peggiore che potesse accadere. Serviva l’occasione, uno spiraglio. Si è aperto quando l’aeroporto è tornato a funzionare: non si sa fino a quando, ma quanto basta perché un aereo di Stato potesse volare sino ad Haiti, imbarcare quei bambini, protetti dagli 007 dell’Aise, e ripartire verso l’aeroporto militare di Ciampino.
Un altro miracolo, nel frattempo, era riuscito a compierlo Vincenzo Starita, vicepresidente della Commissione per le adozioni internazionali: il lungo percorso burocratico era stato completato per sette bambini, altri tre non avevano ancora i documenti pronti, ma sono stati ultimati in tempi velocissimi, riuscendo ad infilarli in corsa su quell’aereo che stava per partire. Non è finita, ci sono altre quattordici procedure di adozione di piccoli haitiani alle quali si sta lavorando, ma i responsabili italiani dell’operazione sanno che stavolta non si sarebbe potuto ottenere di più.
Così alle 10.30 di ieri quell’aereo è atterrato nello scalo romano, cambiando per sempre il destino di dieci bambini e otto famiglie, alcune delle quali già con figli. La cosa più bella la racconta Eugenia Roccella, il ministro della Famiglia che era lì ad accoglierli: «Quando sono scesi dalla scaletta nessuno di loro sorrideva, avevano tutti le facce serie. Ad aspettarli c’erano i loro genitori: alcuni avevano portato i giocattoli, altri i fratellini. Dopo neanche un’ora l’atmosfera era tutta diversa: quei bambini giocavano, ridevano, chi disegnava sui fogli di carta, chi parlava in francese col suo nuovo papà. Una di quelle giornate che valgono l’impegno politico di una vita».