Leccese ed Emiliano
Chissà se nel dopo ballottaggi c’è spazio per ragionamenti sereni. Perché da due anni – da quando si è affermato il centrodestra – ascoltiamo troppe cornacchie, nelle tv come nelle radio, affermare che il governo non ha legittimità. Dicono, gracchiano, urlano: il centrodestra ha il favore di meno della metà degli italiani. Non si interrogano sul loro fallimento, visto che loro di voti ne hanno ricevuti ancora meno alle Politiche. E nemmeno si fanno domande sui sindaci conquistati in questa tornata quasi senza elettori.
I numeri fanno luce: al primo turno delle comunali ha votato il 62% degli elettori, nel secondo l’affluenza precipita al 47 e spicci per cento. Quindi sindaci ad elezione diretta “plebiscitati” con un quarto dei voti nei loro comuni. Questo è invece normale? Ignazio La Russa tocca un punto che non si può più eludere: «Il doppio turno non è salvifico e alimenta l’astensione».
Prendiamo Bari, dove si dice giustamente che il candidato sindaco di centrosinistra, Vito Leccese, ha stravinto col suo 70%. Che corrisponde però a 72mila voti nel secondo turno, i baresi sono 350mila e passa. Lo ha votato 1 abitante su 5, se consideriamo gli abitanti; 1 su 4, grosso modo, se calcoliamo i soli residenti con diritto al voto. È legittimato più della Meloni? È vero che chi perde è ancora meno politicamente vigoroso. Ma se alla conta delle urne si presenta meno di un cittadino su due non è una delusione anziché un trionfo? Conosciamo l’obiezione, le Europee, dove ha votato il 48% degli elettori. Bene, anzi male, ma lì c’è un’istituzione lontana dai cittadini; qui, nei municipi, ci sono i primi cittadini, i punti di riferimento nel territorio, quelli a cui tutti si rivolgono. Ma non li votano più. Le comunali diventano una conta di palazzo.
E a proposito di palazzo, un avviso al centrodestra: occhio alla trappola del doppio turno. Ogni tanto qualcuno avanza l’ipotesi del ballottaggio per le Politiche. Ma sarebbe un errore clamoroso, tanto più se preteso come moneta di scambio per il premierato. Già si è rinunciato al presidenzialismo, ci manca solo un sistema elettorale per regalare l’Italia ad una sinistra rissosa. La realtà è che occorre affermare con forza che non può più reggere una regola elettorale che al secondo turno - per effetto del mercato delle vacche che si determina con la ricerca delle alleanze - si affermi chi magari ha perso al primo turno... Si sono appena conclusi i giochi e già si vede qualche distorsione.
Il caso Cremona, ad esempio. Lì si è affermato il candidato della sinistra, Leonardo Virgilio, che al secondo turno ha vinto con meno voti di quanti ne aveva presi al primo turno il suo rivale di centrodestra, Alessandro Portesani. Virgilio ha ottenuto al ballottaggio il 50,3%, Portesani si è fermato al 49,63. Al primo turno il contrario: 43,19 a 41,94 per Portesani. A votare il 48,6% degli elettori. Si potrebbe girare un film: Se questo è un sindaco, il titolo.
Altri casi. A Firenze, se fosse in vigore la regola che al ballottaggio si va solo se nessuno raggiunge il 40% dei voti, la Funaro non avrebbe avuto bisogno del secondo turno: al primo aveva ottenuto il 43%. Viceversa ha avuto senso il ballottaggio a Perugia, con entrambe le candidate arrivate a un passo dalla vittoria: 49 a 48 per la candidata di sinistra, Ferdinandi, sulla sua rivale Scoccia; è finita 53 a 47 per la prima. Idem per i municipi dove ha vinto la destra.
Morale. Si deve tentare di chiudere la partita in un turno solo, tornando sulla proposta con cui il centrodestra voleva fissare al 40% e non più al 50 la soglia per evitare il ballottaggio. Ci sarebbero più elettori a decidere il sindaco; sarebbe conveniente anche per la sinistra e non solo per la destra, tentare la partita delle alleanze subito, senza subire ricatti tra un turno e l’altro. E magari meno spese elettorali. Ma è la politica che deve giocare le sue mosse per non far vincere i sindaci di nessuno.