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Capezzone: si salvi chi può, Elly e Kamala sono uguali

di Daniele Capezzone mercoledì 7 agosto 2024

4' di lettura

Da qui al 5 novembre, data delle elezioni americane, chi vorrà potrà dedicarsi a un utile ripasso di inglese e constatarlo direttamente, senza bisogno di mediazioni: assisteremo a una quasi totale sovrapponibilità tra i toni e le strategie della campagna elettorale di Kamala Harris e quelli – qui in Italia – di Elly Schlein e della variopinta coalizione giallorossa che il Pd sta allestendo. Con tre connotati ormai supercollaudati: demonizzazione assoluta del nemico (altro che dialogo tra avversari), schiacciamento totale a sinistra (altro che caccia agli swing voters, cioè agli elettori indipendenti), politica delle figurine identitarie (altro che costruzione di programmi razionali).

Sul primo fronte, è evidente che Giorgia Meloni sarà destinataria di quello che ormai possiamo chiamare “trattamento Trump” (auspicabilmente senza proiettili): una sistematica campagna di mostrificazione personale e politica che non deve risparmiare nulla, nemmeno la figlia e gli affetti familiari. Poiché la logica è quella di chiamare a raccolta gli elettori di sinistra contro «Annibale alle porte», nessuna concessione al dialogo è possibile (vorrei dire: nemmeno al rispetto personale). Ogni giorno sentiremo ripetere che «la democrazia è in pericolo», il «rischio fascismo» conoscerà livelli parossistici di evocazione, e i media di accompagnamento (cioè quasi tutti) saranno parte essenziale di questo racconto.

Il secondo fronte è conseguenza diretta del primo: nessuno pensa (meno che mai tra i dem, statunitensi come italiani) che ci siano ormai voti “contendibili” o elettori incerti a cui rivolgersi: il che, qui da noi, è paradossale, visti i livelli complessivi di astensione che farebbero pensare a diverse aree sociali a cui potenzialmente attingere. No: l’unica logica sarà quella di appellarsi in modo ansiogeno e scomposto alla base di sinistra per agitarla-eccitarla-mobilitarla, tentando di comprimere la quota di astenuti (solo) in quell’area. Il terzo elemento è un ulteriore corollario di questa deriva: identity politics spinta al massimo, nessuna attenzione all’allargamento del messaggio, radicalizzazione delle battaglie e del modo di proporle, ricorso a profili ad altissimo tasso identitario. La scelta che ieri Kamala Harris ha formalizzato per il suo compagno di corsa è altamente significativa: no al candidato ebreo, sì al candidato più filo-Islam; no al candidato più centrista, sì a quello più ambiguo rispetto alle manifestazioni di protesta degli anni passati.

Del resto, tornando alle nostre latitudini, la stessa Schlein trova i suoi veri modelli proprio nella sinistra americana, dove gli eccessi radicali dei dem stanno facendo danni inenarrabili. L’ultima ondata era partita alle già elezioni di midterm del 2018, con i democratici Usa e la loro grancassa mediatica che si erano messi a sgranare il rosario delle diversità etniche e di genere, rivendicando una specie di dream team multiculturale. Ecco i nuovi campioni: Alexandria Ocasio-Cortez, radici portoricane e narrazione ultra-sinistra (e già allora al suo attivo le prime dichiarazioni pro-Palestina e anti-Israele); Rashida Tlaib, la prima musulmana eletta in Congresso; Ilhan Omar, la prima rifugiata africana (con tanto di hijab); Sharice Davids, nativa americana e lesbica.

Tutte storie e profili, secondo la ben nota analisi del politologo Mark Lilla, con il solito vizio di fondo della cosiddetta nuova sinistra: appassionarsi alle minoranze e dimenticare la maggioranza degli elettori. Peggio ancora: non solo la sinistra ha preso a concepire se stessa come sommatoria di campagne minoritarie, ma per lo più ha iniziato a condurle senza nemmeno l’ambizione culturale di parlare un linguaggio maggioritario. La Schlein è figlia di tutto questo: giovane volontaria della campagna Obama, poi tifosissima della Ocasio-Cortez, la neosegretaria Pd è la trasposizione italiana (o italo-svizzera) di quel format politico. Frontiere spalancate, dirittismo spinto, spesa pubblica allegra.

Non a caso – negli Usa – tra le città peggio gestite ci sono San Francisco, Los Angeles, Chicago, tutte a loro modo vittime politiche di questa tendenza. Si tratta della ben nota tecnica della creazione delle figurine, cioè di soggetti – ideati e prodotti, politicamente e mediaticamente, a sinistra – che servono in quanto entità esponenziali di una campagna, come simboli, come bandiere da far sventolare (di volta in volta: green, immigrazioniste, lgbt, e così via). Se va bene o finché va bene, c’è gloria per tutti. Quando va male, si ammaina la bandiera e se ne tira su un’al tra. Ma intanto l’essenziale è usare tutto questo come una clava, nel modo più divisivo possibile, descrivendo gli altri (Trump o Meloni, poco cambia) come mostri, come nemici del popolo, come pericoli per una democrazia che con loro morirebbe ma che – miracolo! – in mano ai dem rifiorirebbe rigogliosa.

La posta in gioco è dunque altissima, molto più di una vittoria o una sconfitta alle elezioni: il tipo di impostazione dem, al di qua e al di là dell’Atlantico, è una nuova forma (solo apparentemente soft) di totalitarismo culturale e morale. Se si sta da una parte, si è nel perimetro del “pensiero accettato”: se invece si sta dall’altra, si è buttati nell’area dei paria, degli intoccabili, in una sorta di lebbrosario nemmeno troppo metaforico. Prospettiva inquietante.

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