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Mario Sechi: le frasi sbagliate dei rivoluzionari senza rivoluzione

di Mario Sechi sabato 30 novembre 2024

3' di lettura

Il 27 settembre del 1994 il magistrato Piercamillo Davigo disse che l’Italia doveva «essere rivoltata come un calzino»; il 29 novembre del 2024, il sindacalista Maurizio Landini afferma che vuole «rivoltare l’Italia come un guanto». Trent’anni separano queste due frasi, ma la radice è la stessa, l’idea di fare la rivoluzione. Davigo e la procura di Milano cancellarono con l’arma giudiziaria la mappa dei partiti; Landini oggi punta l’indice sul governo di centrodestra e afferma che «c’è una svolta autoritaria». Il linguaggio è una spia, precede gli eventi, apre e chiude fasi della storia: nel 1994 quella dei magistrati sui giornali era la «rivoluzione» di Mani Pulite; nel 2024 la piazza di Cgil e Uil è la «rivolta sociale». Sono tempi diversi, ma l’orchestra della storia sta suonando uno spartito che sta allineando tonalità, scale e accordi. Maurizio Landini e Elly Schlein dovrebbero fermarsi, riflettere, usare la ragione, ma sono prigionieri della loro trappola retorica, e corrono verso il burrone. Ci sono anche altre sinistre assonanze tra il passato e il presente, bagliori della storia e della cronaca.

Ieri e oggi sono legati dal filo rosso della sinistra che usa mezzi extra -parlamentari per ribaltare la sconfitta subita sul terreno elettorale. Ieri e oggi, la magistratura e il sindacato diventano soggetto politico, godono del favore della grande stampa, impongono slogan, manipolano le parole, l’ideologia è l’architrave delle loro decisioni, così la dottrina delle «frontiere aperte» diventa sentenza contro le politiche del governo sul contrasto all’immigrazione e lo sciopero generale uno strumento non di lotta sociale ma di blocco della società. Sono in scena gli attori di un piano che punta a svuotare il programma della maggioranza e mettere il governo in stato di minoranza. Nella confusione delle idee, simboleggiata dalla presenza di elementi inconciliabili (le bandiere rosse della Cgil che sfilano con quelle dei filo-Hamas), si vede con chiarezza l’emersione di nuclei violenti che cercano lo scontro, il “contatto” fisico con le forze dell’ordine, come è accaduto ieri a Torino. I poliziotti feriti sono un memento che viene dal nostro passato, è la «notte della Repubblica» che riemerge con tutti i suoi simboli, le pulsioni inconfessabili, la distruzione dell’avversario che viene identificato come un «nemico» da abbattere.

Come negli anni Settanta, i segnali premonitori ci sono tutti, sono a disposizione di chi vuol vedere, è sufficiente leggere i comunicati, ascoltare i discorsi, misurare i fatti, vedere le alleanze e le dissociazioni, unire i puntini di un discorso che con quel passato ha in comune l’involuzione della sintassi, l’uso di neologismi e sigle incomprensibili all’uomo della strada, la scelta di parole e colori che evocano il sangue (le mani rosse dipinte sul volto di Giorgia Meloni e Anna Maria Bernini), l’atto estremo del bruciare l’essere umano, ridotto a bersaglio (sempre Meloni, Giuseppe Valditara, Matteo Salvini). Basta osservare con attenzione cosa sta accadendo nelle università, il vero luogo dove si celebra il culto dell’annientamento della persona (dell’ebreo, dell’intellettuale non allineato, dello studente che non accetta il pensiero dominante), il degrado è esposto, visibile, inquietante. Se nelle aule e nei rettorati domina il pensiero debole, se la paura cancella il libero dibattito, alla fine prevale la legge del più forte, quello che oggi agita il bastone, ma promette domani il salto di qualità quando mima il gesto sinistro della P38.

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