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Una sciagura chiamata Romano: dall'Iri all'euro, la cronistoria di 30 anni di guai dell'uomo che fu due volte premier

Prodi è ricordato per il folle cambio della lira e per le super tasse. Una volta fu anche ministro
di Andrea Tempestini domenica 9 settembre 2012

3' di lettura

di Marco Gorra «Nel suo discorso al consiglio nazionale della Dc, il senatore Fanfani ha citato l’Aida (“Se il mio sogno si avverasse”) e ha auspicato l’arrivo di un esercito di prodi. Un cronista distratto ha completato il concetto: “Un esercito di Prodi e di Andreatta”». Correva l’anno 1981, e a teorizzare che l’impegno politico di Romano Prodi non si sarebbe rivelato un toccasana per il Paese era un certo Giulio Andreotti. Che, avendo avuto il professore reggiano come ministro dell’Industria tre anni prima, forse un minimo di cognizione di causa ce l’aveva.  Il guaio è che nessuno gli diede retta. Un anno dopo, Spadolini nominerà Prodi alla presidenza dell’Iri, dove rimarrà per dodici anni, gestendo tra l’altro (con risultati non esattamente spettacolari) il maxi-pacchetto di privatizzazioni dei primi anni ’90. Dimessosi dall’Iri a metà del ’94, il Professore è pronto per la discesa in campo («Adesso ho mente e animo liberi. Un impegno in politica diventa un dovere, vista la situazione»). A inizio ’95 l’Ulivo è realtà, ed un anno dopo Prodi vince le elezioni.  I danni iniziano da subito. Perché col Professore i comunisti tornano al governo. Non tanto nella stanza dei bottoni (assai affollata di ex freschi di trasformazione in Pds: i comunisti veri incassano solo un sottosegretario agli Esteri in quota Movimento comunista unitario) quanto nelle immediate vicinanze: a tenere su il primo gabinetto del Professore, infatti, concorrono l’appoggio esterno ma decisivo dei venti deputati eletti da Rifondazione comunista. I quali, dopo averlo tenuto a bagnomaria per un paio d’anni, gli staccheranno la spina il 9 ottobre del ’98. Nel frattempo, però, il governo Prodi troverà il tempo di negoziare con l’Europa un concambio lira/euro oltre lo svantaggioso (offrendo il fianco, quando si dicono i corsi e i ricorsi, a quanti non gli perdoneranno l’acquiescenza ai voleri del «direttorio franco-tedesco»): l’Italia rientrerà nella Sme col cambio fissato a 990 lire per ogni marco tedesco, cifra che farà da base per il cambio lira/euro a 1936,27. L’operazione, da più parti additata oggi come la radice della contrazione del potere di acquisti degli italiani da quando è stata introdotta la moneta unica, ci costa pure: per la moneta unica, il governo impone una eurotassa, la cui restituzione integrale stiamo ancora aspettando. Il breve volgere di un mandato alla guida della Commissione europea, e il Professore torna sulla scena domestica. Richiamato nel 2006 dai partiti che non hanno uno straccio di nome da contrapporre a Berlusconi, Prodi vince le elezioni di un soffio e si insedia a Palazzo Chigi per la seconda volta. Anche qui, durata poca e danni tanti. Nell’annetto e mezzo che l’Unione impiega a finire a gambe per aria, Prodi riesce, tra le altre cose a: disarticolare la riforma delle pensioni (il celebre scalone) approntata dal precedente governo; introdurre, auspice il ticket formato da Padoa-Schioppa e Visco, una valanga di nuove tasse tanto da far segnare il record decennale di pressione fiscale nel 2007 (quota 43.1%); finire invischiato in un pasticcio con la ristrutturazione di Telecom che costerà il posto al proprio braccio destro Angelo Rovati; fare una serie di figure magrissime con gli americani sfangando una gran quantità di importanti votazioni di politica estera solo grazie ai senatori a vita, il cui apporto riequilibra i voti contrari dei parlamentari comunisti della maggioranza. Il 24 gennaio 2008, Prodi assiste impassibile mentre il Senato gli revoca la fiducia, decretandone l’uscita di scena. Non definitiva, a quanto pare.

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