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Giuseppe Conte, l'errore più grande del premier sul caso Armando Siri

di Davide Locano domenica 12 maggio 2019

3' di lettura

Pare che la presunzione d’innocenza, in Italia, specie sotto elezioni, torni ad assumere una sua invincibile funzione ornamentale. Prendete l’Armando Siri. Noi non sappiamo ancora se Siri sia come Alfred Dreyfus, l’innocente nella Terza Repubblica (corsi e ricorsi) di Francia, passato a fil di spada da una retorica giustizialista. Né se la famosa intercettazione dei “30mila euro” che Siri sarebbe costato all’imprenditore Paolo Arata, abbia la valenza del bordereau attraverso cui il capitano alsaziano venne ingiustamente condannato per spionaggio. Non sappiamo neppure se Siri abbia, come dire, lo standing, di Dreyfus. La verità inconfutabile è solo nel grembo di Giove e, talora, nella testa dei magistrati zelanti. Eppure, sul caso Siri, giuridicamente, c’è qualcosa che non quadra. Soprattutto non quadrano due elementi; i quali, continuamente ripetuti a mantra nei talk show, stanno finendo per assumere consistenza di realtà. Il primo elemento è che Siri viene trattato dai media come un condannato. Invece, non è nemmeno imputato nel senso della persona accusata “di aver ipoteticamente commesso uno o più reati, ma che necessita di essere sottoposta a processo per verificarne l’effettiva colpevolezza” (ex art.60 cod. proc. pen); e del processo a Siri -finora almeno- neanche l’ombra. Siri è semplicemente uno dei tanti indagati che spesso la magistratura spinge sotto i ponti della politica. Molti parlamentari, consiglieri regionali, sindaci, conoscono oramai la trafila e quando scatta il processo hanno imparato a respirare a pieni polmoni la presunzione d’innocenza; e rimangono al proprio posto fin quando, per la gran parte dei casi, le indagini finiscono in archiviazione o proscioglimento. E’ accaduto, per dire, con Virginia Raggi, più volte indagata e -lei sì- “accusata” di reati gravi come abuso d’ufficio e falso; ma la sindaca non s’è scollata dalla sedia fino a quando l’innocenza le è stata riconosciuta, giustamente. Il bello è che ora, per un sussulto giacobinista in chiave elettorale, secondo il Movimento 5 Stelle, quel che vale per Raggi non può valere per Siri. Per il quale Siri -e qua siamo al secondo elemento di dubbio- si parla disinvoltamente di accusa “reato di mafia”. Il che sarebbe gravissimo. Se fosse vero. Esiste un’intercettazione in cui Arata fa intendere al figlio il costo dell’operazione per far passare degli emendamenti, senza capire se siano state pagate o promesse tangenti. Non ci sono pistole fumanti sul passaggio di soldi, né prove inoppugnabili di rapporti clientelari con Arata, il quale -lui sì- pare essere molto vicino a Federico Nicastro, prestanome del mafiosissimo Matteo Messina Denaro. Per la proprietà transitiva della semplificazione televisiva Siri conosce Arata che conosce Nicastro; ergo, Siri è “in odore di mafia”. Carlo Nordio, che di giustizia ne mastica un pochino, sul Messaggero al un lato critica i 5 Stelle che per coerenza etica avrebbero già dovuto impedire a Siri -condannato per bancarotta, non pinzellacchere- di fare il sottosegretario. Ma, dall’altro, scrive: "Non c’è, allo stato, il minimo indizio che Siri sia coinvolto in vicende mafiose. Se ci fosse, considerando l’interpretazione estensiva che la giurisprudenza dà del concorso esterno, si può star certi che gli sarebbe stato recapitato un avviso corrispondente”. E, in effetti, Nordio ha ragione. Non è che uno diventa mafioso per osmosi indiretta. Infatti, chi ha letto l’incartamento di Siri presso la Procura, della mafiosità dell’araldo della flat tax non ha rilevato traccia. Ora, dato che la Lega di fatto ha già mollato Siri e Conte ne ha chiesto seppur educatamente la testa, Nordio si chiede: “è possibile che la Lega accetti questo diktat senza reagire?”. Caro dottor Nordio, certo che è possibile. Per due motivi. Perché prima del caso Siri, Salvini aveva già svuotato all’art-38 del Decreto Crescita, la norma grillissima sul Salva-Roma di ben 5 commi su 7 (impedendo così di trasferire il grosso dei debiti della Capitale allo Stato). E aveva già dato una bella spallata alla Raggi. E anche perché tra poco ci sarà da battersi per l’autonomia delle Regioni del nord, l’autentico bacino elettorale della Lega. Sicché non è troppo il caso di continuare a impuntarsi contro Di Maio: le cartucce sono poche e la cartuccia sul giustizialismo è a salve. Siri cederà alla verità politica, non a quella giudiziaria. "Era quasi verso sera ero lì che stavo andando/che s’è aperta la portiera/han buttato giù l’Armando", direbbe Gaber… di Francesco Specchia

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