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Mario Draghi, non solo Lega: dalle Sacre Stanze filtra il piano del Pd per liberarsene. Come e quando

di Alessandro Giuli martedì 7 giugno 2022

Mario Draghi

4' di lettura

Rottamare Mario Draghi? È possibile, a giudicare dalle parole dei maggiori azionisti della larga e disunita maggioranza che sostiene il governo dell'ex banchiere centrale europeo. Come già Matteo Salvini, ieri Enrico Letta è tornato sul tema con una certa sicumera: «Il governo delle larghe intese termina con questo Parlamento, dopo le prossime elezioni politiche saranno i cittadini a decidere e noi puntiamo ad avere la maggioranza di centrosinistra che possa governare il Paese secondo un progetto riformatore e progressista». Nulla di nuovo rispetto a quanto affermato soltanto ventiquattr' ore prima - «non lasceremo l'Italia in mano alle destre populiste» - forse per rassicurare l'alleato fantasma Giuseppe Conte alle prese con le tante grane dentro il Movimento Cinque stelle.

Fatto sta che la grisaglia del "governissimo" non si porta più così volentieri nemmeno dalle parti del centrodestra, fatta eccezione per chi almeno vorrebbe concludere la legislatura con un certo decoro rassicurando le tecnocrazie europee (vedi alla voce Giancarlo Giorgetti) o per chi, come l'ala governista di Forza Italia, non ha ancora ben chiaro quale sarà l'approdo dei moderati nel 2023.

SCATOLE PIENE - Quanto all'opposizione, Giorgia Meloni attendeva impaziente questo momento per far pesare la propria vocazione maggioritaria e bipolare, trovando nel Pd di Letta un alleato tattico prima ancora che un avversario strategico. E in fondo anche Salvini ha come interesse prioritario la sopravvivenza di una leadership ammaccata inesorabilmente dal suo ruolo di "prigioniero tecno-politico" impegnato in una fronda parallela a quella di Conte. Siamo del resto sulla soglia della campagna elettorale e lo start delle amministrative previste per domenica prossima (con referendum sulla giustizia annesso) non induce a immaginare quiete e stabilità.

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Resta però la domanda di fondo: è possibile disfarsi di Draghi e della sua autorevole ombra istituzionale? Il diretto interessato tace gesuiticamente ma lascia che i suoi amici utilizzino formule ambivalenti per descrivere lo status quo: il premier ne avrebbe le scatole piene e al tempo stesso è consapevole che non sarà facile, né desiderabile, abbandonare la via da lui tracciata assieme al Quirinale per incardinare il disegno del Pnrr e le riforme cui sono vincolati i quattrini a debito del pronto soccorso finanziario europeo. Ce l'ha appena ricordato il commissario competente Paolo Gentiloni, il quale da Bruxelles svolge il doppio ruolo di controllore sovranazionale e di garante dell'ala tecnocratica nel Pd, il principale partito di maggioranza in termini di potere reale più che di consenso percepito.

Di là da ogni velleità divinatoria, la realtà dei fatti ci restituisce un quadro consunto in cui la così detta Repubblica dei partiti rivendica una centralità già esibita nel gennaio scorso, quando le ambizioni quirinalizie di Draghi sono state impallinate nella carambola da cui è germinato il Mattarella bis: la riconferma dell'equilibrio esistente ha rappresentato una prova di forza parlamentare, per quanto non esattamente un'umiliazione nei confronti del presidente del Consiglio. Che Draghi ci abbia messo del suo è dopotutto innegabile. La sua aura da over the top internazionale lo ha proiettato a Palazzo Chigi in circostanze emergenziali e con i poteri da stato d'eccezione negati opportunamente all'inquilino uscente; con la missione di vaccinare gli italiani contro il Covid-19 e predisporre appunto i fondamentali di ripresa e resilienza richiesti dall'Europa.

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L'ordinaria amministrazione ha messo tuttavia a nudo i limiti congeniti di un leader abituato a percorrere linee di vetta nell'arte del comando ma inesperto nella mediazione di basso cabotaggio con la rappresentanza parlamentare e perfino un po' naïf nella comunicazione pubblica. Riletta oggi, nel pieno del conflitto russo-ucraino che la sorte gli ha prepotentemente piazzato in agenda (trovando l'atlantista giusto al posto giusto), quella sua frase sul "dittatore Erdogan" sfuggitagli nell'aprile 2021 appare sufficientemente rivelativa. Anche la gestione dei dossier economici tradizionalmente balcanizzati dai partiti, ovvero le nomine e le al leanze delle grandi aziende di Stato, ha scavato e proba bilmente scaverà nei prossimi mesi un ulteriore fossato tra Palazzo Chigi e le segreterie dei partiti in modalità "Re conquista" che vivono con crescente insofferenza il ritorno spettrale dello spread e i report allarmistici delle agenzie di rating.

DISALLINEAMENTO - E qui il cerchio si chiude, perimetrando al contempo il tramonto della presunta in scalfibilità draghiana e l'incertezza sui meccanismi della successione. La fame di protagonismo della politica che si è sentita esautorata nelle sue prerogative rischia ancora di scontrarsi con il muro di un assetto globale in corso di caotica ridefinizione, e con la pesante prospettiva di un'economia di guerra da portare sulle spalle e far sopportare agli italiani. Il disallineamento tra la natura della democrazia dell'alternanza e le infinite variabili del disordine mondiale non sembra destinato a ricomporsi facilmente. 

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