Flop dopo flop

Enrico Letta, il suo fallimento più grande: ora torni a fare il prof

Giovanni Sallusti

Ieri è andato in scena il disfacimento di una leadership. Plastico, spettacolare, irreversibile. Ci riferiamo a quello che teoricamente è ancora il capo del secondo partito italiano, Enrico Letta. Costui ha avuto dalla vita un regalo che pochissimi hanno: un secondo tempo, l'opportunità della rivincita. E l'ha clamorosamente gettato alle ortiche, con quell'aria indefinita da giovane -vecchio democristiano, con quell'ostinazione da secchione refrattario alla sola idea di un guizzo, con la drammatica, atavica incapacità di guidare i processi da lui stesso messi in moto. È lui e non può che essere lui, lo sconfitto della pazzotica giornata politica. «Ho ascoltato Carlo Calenda», si lamenta su Twitter appena l'altro gli rifila il due di picche dalla Annunziata. «Mi pare da tutto quel che ha detto che l'unico alleato possibile per Calenda sia #Calenda».

 

 

E riesce ad essere irriso dal rivale, che pure è oggetto dell'irrisione generale per i suoi contorcimenti: «No Enrico. In verità eri tu. Buon viaggio e grazie comunque per la disponibilità a discutere». Ha discusso tantissimo in queste settimane, il segretario del Piddì, ha discusso con liberali ipotetici e comprovati comunisti, con chiunque e il suo contrario, purché condividessero la premessa sotto forma di paranoia: bisogna «fermare le destre». Così, al plurale, perché aumenta l'effetto scenico, Enrico pensa che dietro l'espressione l'elettore normale veda quel che vedono nella redazione di Repubblica, frotte minacciose di camicie nere. Addirittura, c'è da «difendere la Costituzione», tuona il leader (?) di un partito che nella stagione dei lockdown giallorossi ha sostenuto la violazione di una dozzina di principi costituzionali. E allora si mette a tessere l'improbabile tela di un'alleanza a due velocità, qualcosa perfino peggio re del vecchio Ulivo, un'Accozzaglia compiaciuta e dichiarata. Stringe con Calen da un patto gonfiatissimo dai giornaloni, pigramente collegato alla mitologica Agenda Draghi (un nonsense, in assenza di Draghi), che a suo dire «riapre completamente la partita». Dopodiché si lancia in un corteggiamento serratissimo di nullità rossoverdi come Fratoianni o Bonelli, ecotalebani contro il nucleare, contro i rigassificatori, contro gli aiuti militari all'Ucraina, contro la Nato.

 

 

 

QUANTE CONTRADDIZIONI Il falò del principio di non contraddizione, ma non importa, ci sono da ferma re le destre. Letta lo teorizza espressa mente, in un moto di sincerità improvvida: «Non sto parlando di un accordo di governo». Il capolavoro è che dopo aver innescato crisi d'isteria a sinistra per l'accordo con Calenda, offre a Carletto il pretesto per dare ancora una volta sfogo al proprio dadaismo (im)politico: l'accordo è carta straccia. Di seguito, il bilancio del la raffinatissima strategia (al punto da es sere rarefatta) lettiana. Ha depotenziato drasticamente Calenda, che se avesse corso da subito e senza grotteschi andirivieni al centro avrebbe potuto infastidire assai il centrodestra. Ha creato scompensi e incomprensioni alla sua sinistra, nel la foga di tenere tutti dentro questo cartel lo molto più brancaleonesco che costituzionale. E adesso, se vuole coltivare qual che residua speranza, ha una sola, urticante fiche in mano. Tornare in ginocchio da Peppino Conte e i suoi desperados a Cinque Stelle, con cui due settima ne fa aveva dichiarato una «rottura irreversibile». Una vecchia volpe del Palazzo come Gianfranco Rotondi è sicuro che lo farà. Sarebbe la degna conclusione di una non -leadership. Stai sereno, Enrico, c'è sempre quel posto da professore a Parigi. Chi sa fa, chi non sa insegna.