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Pd, Di Gregorio e la profezia tombale: "Da chi sarà divorato"

Pietro De Leo
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I primi passi del governo, il "contrattacco" dell'opposizione. Tracciamo con Luigi Di Gregorio, docente di scienza politica e saggista, lo scenario di questa fase iniziale di legislatura.

Professore, in un suo libro, Demopatia, ha tracciato la radiografia di una democrazia in crisi, non solo in Italia.
«Il male è profondo e diffuso, viene da lontano e chiama in causa il rapporto tra popolo e politica. Certo, una maggioranza ampia e legittimata dal voto popolare aiuta la stabilità del governo. Stabilità, però, non vuol dire necessariamente anche efficacia. Questa dipende dalla capacità di intercettare le domande pubbliche e di trasformarle in decisioni e azioni che impattano positivamente sulla società. E dalla capacità di saperle comunicare, inserendole in una narrazione coerente e convincente. Con un rischio sempre dietro l'angolo, ossia l'inseguimento della quotidianità e dell'agenda mediatica rispetto alle reali esigenze di un sistema-paese, che spesso sono di lungo periodo e non catturano l'attenzione né della stampa né dei cittadini. Riuscire a miscelare sapientemente questi due tipi di scelte è una sfida complicata ma necessaria».

 



 

Lei, spesso, ha analizzato la volatilità dei messaggi politici. Qual è l'effetto in un momento in cui la globalizzazione si sta riscrivendo?
«Ormai non chiediamo coerenza ai nostri leader politici, chiediamo gratificazioni immediate ed emozioni a flusso continuo. Tuttavia, dobbiamo stabilire una differenza. Se a contesto immutato non si cambia idea, si è coerenti; viceversa, se la si cambia, si è trasformisti. Se a contesto mutato non si cambia idea, si è ottusi; cambiarla, invece, è sintomo di intelligenza. Ad esempio, da più parti si sostiene che Meloni abbia cambiato idea sull'Europa o sulle trivellazioni. Ma dopo il Covid, con una guerra e una crisi energetica in corso e con un rischio stagflazione, è chiaro che il contesto più che mutato, è stravolto. Riposizionarsi è segno di capacità di analisi politica. Popper avrebbe detto che è "una scelta razionale basata sulla logica della situazione"».

In campagna elettorale una buona quota del confronto politico è stata sui rischi di derive autoritarie e neofasciste. Davvero l'Italia non ha chiuso i conti con il '900?
«Ho trascorso tutta l'estate a rispondere a domande di testate estere sull'imminente arrivo di un governo fascista. Credo che questo derivi da due cose: 1) è una tematica che fa troppo comodo alla sinistra, forse più intellettuale che politica. È anche la ragione per cui ogni frase chiarificatrice da parte di Meloni non basta mai alla controparte; 2) l'opinione pubblica internazionale è evidentemente sbilanciata verso la sinistra liberal-global. A me pare che gli elettori abbiano stabilito che quel pericolo non ci sia. L'Italia è una democrazia matura e solida e, soprattutto, nessun partito tra quelli in Parlamento si sogna minimamente di mettere in discussione il regime democratico. La destra al governo è una destra conservatrice. Può piacere o meno - come può piacere o meno una sinistra liberal e progressista - ma esattamente questa è la democrazia liberale: pluralismo, confronto di idee, senza pensieri unici o presunto monopolio della verità».

 



 

Puntando il faro sul centrodestra, si troverà un equilibrio duraturo tra tre figure come la Meloni, Salvini e Berlusconi?
«È normale che in un governo di coalizione i partner minoritari cerchino visibilità e recupero dei consensi, "smarcandosi" ogni tanto dalla linea del partito maggioritario. Tuttavia, sono convinto che Salvini e Berlusconi debbano stare attenti al timing e all'intensità di queste operazioni. Tirare la corda fin da subito significa rafforzare la leadership di Meloni e fare evidenti autogol da parte di chi cerca di recuperare consenso. Meloni ha dalla sua dieci anni passati all'opposizione pur di arrivare al governo attraverso il voto popolare e solo con la coalizione di centrodestra. Chi appare come il sabotatore di questo progetto, sin da subito, non fa che incrementare il consenso per Fratelli d'Italia».

Capitolo centrosinistra. Mentre il Pd si avvita in una fase congressuale, il M5S si pone come forza autenticamente progressista. È realistico pensare ad una primazia dei pentastellati a sinistra?
«Dipende molto dalla durata del congresso del Pd e da cosa uscirà fuori da quel percorso. Il Pd non ha bisogno solo di un nuovo segretario. Ha bisogno di un riposizionamento totale, di uscire dalla ZTL e dal rappresentare l'Italia colta e abbiente. Di tornare a parlare alle periferie e alle fabbriche. Quanto è credibile però il Pd, oggi, agli occhi di questi elettori? È una sfida difficile, che riguarda tutti i partiti socialdemocratici che hanno abbracciato l'agenda liberal-global e che ora si trovano rinchiusi in un posizionamento elitario e spesso elettoralmente perdente. Se l'operazione riuscirà - e in tempi brevi - l'Opa ostile di Conte sarà limitata. In caso contrario, il rischio c'è. In politica i vuoti si riempiono, e oggi il vuoto a sinistra lo sta riempiendo Giuseppe Conte».

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