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Carlo Calenda, il giallo sulle dimissioni sconcerta Azione

di Claudia Osmetti martedì 11 giugno 2024

 Carlo Calenda

3' di lettura

Per un soffio, per un pelo, per una manciata di decimali. Perché, in verità, hanno deciso di farsi forse non la guerra, ma la concorrenza (e pure spietata) sì. Sono fuori dall’Europarlamento, non ce l’hanno fatta, non hanno sfondato la soglia di sbarramento del 4%, sia la lista Stati Uniti d’Europa (l’assembramento radical-renziano-socialista) sia Azione di Carlo Calenda. Si ferma, dopo una nottata in bilico, sempre lì, sul filo, a un metro dal traguardo, la strana coppia Matteo Renzi ed Emma Bonino: 3,8%. Quasi una beffa. E si ferma, leggermente più indietro, ma mica di tanto, il partito di Calenda: 3,3%.

Il centro (diviso) non la centra. Fine giochi e, però, proseguio delle polemiche, delle frecciatine, che poi, a voler essere maliziosi, probabilmente sono la causa della stessa disfatta.

Bastava così poco. Bastava presentarsi assieme. Ma come si fa se «il problema è che Bonino non fa partiti con nessuno e Renzi li fa per poi sfasciarli» (cit. Calenda in conferenza stampa, qualche ora dopo la Caporetto del “fronte” europeista alle europee)?

Oppure se, alla débâcle, si somma un mezzo show che fa più circo che comizio, con Il Foglio che, in serata, lancia la notizia: Calenda, sempre lui, sarebbe pronto a dimettersi da segretario, «non dovete considerare in alcun modo la mia presenza da leader come questione imprescindibile». E una nota del partito che, qualche minuto, dopo smentisce lo smentibile: «È esattamente vero il contrario, nel corso di una direzione politica è stato posto con forza il tema del rilancio, altro che dimissioni di Calenda».

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O ancora se si (ri) comincia con i “te l’avevo detto” che ora, a urne chiuse, non servono a un accidenti; l’unica cosa che potrebbe salvare un tantinello la faccia (lunga, quella di Matteo Richetti, con lo sguardoda funerale) sarebbe un mea culpa: «Io l’avevo detto a Emma», invece, «che il suo elettorato, come il nostro, era incompatibile con quello di Renzi, e infatti hanno lasciato a terra il 40% dei voti che avevano prima» (cit. sempre Calenda).

Sono i grandi esclusi. Tolta la disfatta del Movimento 5 Stelle, il risultato più significativo (in negativo) è il loro. Perché resta l’amaro, resta il dubbio dissipato dai numeri (che in politica non coincidono mai, è vero, un eventuale corsa unitaria non avrebbe automaticamente assegnato il 7,1%: però danno l’indicazione di massima, togli di qua, aggiungi di là, sarebbe andata, siamo onestim diversamente), resta che a beneficarcene, alla fine, sono tutti gli altri.

«Niente, è andata male. Purtroppo siamo rimasti fuori. Pesa l’assurda rottura del Terzo Polo: potevamo avere sette parlamentari europei riformisti, insieme; e invece sono zero. Che follia». Il più amareggiato è Renzi.

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D’accordo, il tonfo, per lui, in dieci anni esatti, è del meno 37%, tuttavia, anche qui, di nuovo, mettere in relazione le due tornate elettorali, come non esita a fare Calenda, lascia il tempo che trova. Nel 2014 Renzi era il segretario del Pd, faceva il premier. Oggi è il presidente di uno dei partiti minori, per giunta una sorta di spin-off dei dem in salsa liberal-riformista, e il ruolo istituzionale più alto che ricopre è quello di semplice senatore.

Bonino non commenta, la sua ultima apparizione pubblica è al seggio, sabato pomeriggio, a Roma, quando arriva claudicante, una stampella e Riccardo Magi che la sostiene dall’altra parte. È Magi, invece, per la costola più europeista della lista, a intervenire: «Abbiamo perso», scrive in un lungo post su Facebook, ma «non commetteremo adesso lo stesso errore di chi, anche questa mattina, ancora una volta, preferisce attribuire a diatribe personali questo pessimo risultato non riconoscendo l’errore politico di non essere riusciti a unire sotto il simbolo degli Stati Uniti d’Europa tutti i riformisti, i liberali e i federalisti europei».

Chissà se a Calenda che, ironia della sorte, per l’intera notte elettorale, ha il suo quartier generale romano a qualche decina di metri di distanza da quello dei renzian-boniani, fischi un orecchio. Ieri Calenda è tornato a riattaccare: «Renzi fa i partiti per poi sfasciarli». Forse con meno litigi e più unità, oggi i discorsi del dopo-voto avrebbero avuto un piglio differente. Forse che sì, forse che no. Allo stato dei fatti, però, tocca ammetterlo, è ancora che no. 

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