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Giorgia Meloni, i suoi avversari ridotti a sperare nella maledizione di chi vince le Europee

Francesco Damato
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Diavola di una donna, la prima alla guida di un governo in Italia, e per la prima volta di destra nei 78 anni della Repubblica, Giorgia Meloni riuscirà a sfatare - un’altra prima volta nella sua esperienza politica- il mito un po’ sinistro della sfortuna riservata ai vincitori delle elezioni europee. Che nel 1994, per esempio, agli albori della cosiddetta seconda Repubblica, costarono a Silvio Berlusconi la rottura con lo spaventatissimo alleato Umberto Bossi, lasciatosi convincere da Oscar Luigi Scafaro al Quirinale a disarcionare il Cavaliere da Palazzo Chigi, con la garanzia che non avrebbe pagato pegno in un ricorso anticipato alle urne.

Nel 2014 toccò a Matteo Renzi, ancora fresco di Palazzo Chigi e della segreteria del Pd, al Nazareno, di perdere praticamente la testa per la vittoria alle elezioni europee con più del 40 per cento dei voti. E infilarsi in un’avventura politica e umana che lo portò nel giro di tre anni a perdere la guida prima del governo, con la bocciatura referendaria della sua riforma costituzionale, e poi del partito.

Nel 2019 toccò a Matteo Salvini prima di vincere le elezioni europee, col 34 per cento dei voti, e poi di perdere la partita ingaggiata contro l’allora alleato leghista Giuseppe Conte. La rottura fu clamorosa anche sul piano scenico: nell’aula del Senato, con l’avvocato presidente del Consiglio nei doppi panni di pubblico ministero e giudice, che lo mandò all’opposizione alleandosi a sorpresa con un Pd- capriola nella capriola - a rimorchio dell’ex segretario Renzi. Che lo convinse a cambiare schieramento senza il passaggio elettorale cui si era impegnato il segretario di turno, Nicola Zingaretti.

 

 

Ora è toccato vincere le elezioni europee a Giorgia Meloni, appunto. Ma in dimensioni e in circostanze tali, nel contesto di un terremoto politico a livello continentale, e alla vigilia di un G7 a guida italiana, che la mettono in quella che possiamo chiamare la classica botte di ferro. L’unica incognita che mi sembra sia davanti alla premier riguarda solo la modalità e la consistenza della sua scontata partecipazione alla definizione dei nuovi equilibri al vertice dell’Unione Europea, e ai relativi passaggi parlamentari di Strasburgo.

Sul piano interno, quello della nostra politica domestica, come la chiamano gli americani, non c’è partita per gli avversari e i concorrenti, reali o potenziali che siano, effettivi o immaginari, della premier appena gratificata peraltro di circa due milioni e mezzo di preferenze. Che non le servivano e non le servono per andare a Strasburgo, in un gioco fatto peraltro a carte scoperte, e quindi senza l’“inganno” denunciato con particolare furore da Giuseppe Conte prima di entrare mestamente in una riflessione a dir poco critica, ma bastano e avanzano per consolidare al suo posto in Italia la o il presidente del Consiglio. Come l’interessata preferisce essere chiamata in un maschile neutro che personalmente non mi piace, a prescindere dall’opinione, verdetto e quant’altro persino dell’Accademia della Crusca.

Anche per ragioni direi anagrafiche, senza continuare a perdere il nostro tempo appresso alle vecchie categorie della destra e della sinistra, cui penso che rinuncerebbe anche il mitico Norberto Bobbio se fosse vivo, la Meloni è in linea di continuità con le tradizioni repubblicane. I 45 anni da lei portati all’arrivo alla guida del governo non sono poi molto distanti dai 46 annidi Amintore Fanfani nel 1954, dei 47 di Aldo Moro nel 1963, dei 49 di Bettino Craxi nel 1983, dei 51 anni di Francesco Cossiga nel 1979, dei 49 di Massimo D’Alema nel 1998: il primo post-comunista arrivato al vertice del governo con la spinta di Cossiga, prim’ancora che il post-comunista Giorgio Napolitano arrivasse al vertice dello Stato nel 2006, confermato nel 2013 per la prima volta nella storia del Quirinale repubblicano.

Che cosa voglio dire con questa rassegna di date e dati? Semplicemente che avversari, concorrenti e quant’altro di Gorgia Meloni, dentro ma anche fuori d’Italia, dovranno mettersi il cuore o l’anima in pace e rassegnarsi al suo turno di leadership guadagnatosi sul campo, da non predestinata come lei stessa si vantò di sentirsi al suo esordio alla testa del governo. Per i rosiconi c’è spazio, in fondo a destra o a sinistra, come preferiscono.

 

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