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Elly Schlein e Giorgia Meloni, disgelo post-voto

Francesco Damato
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Che peccato, per lei. Mi riferisco a Elly Schlein, la giovane segretaria del Pd uscita personalmente e politicamente meglio dalle elezioni europee dopo Giorgia Meloni, tanto da averne ricevuto per telefono le congratulazioni.

O avergliele fatte, senza altre versioni. Fa lo stesso. I rapporti fra le due ormai prime donne d’Italia sembravano usciti rafforzati. Una rivincita peraltro di entrambe sui maschietti o maschiacci che, anche all’interno dei loro schieramenti, ne avevano osteggiato sino a riuscirvi il confronto televisivo diretto allestito nella Rai dallo specializzatissimo Bruno Vespa.

Portato a casa il suo miracoloso, per molti anche al Nazareno, 24 e rotti per cento di voti -per quanto inferiore di un punto alle previsioni formulate dal mio amico, e suo ammiratore, Paolo Mieli- e ridotte con pubblico compiacimento da due a un milione di schede contate nelle urne le distanze fra il suo Pd e il partito della premier, la Schlein poteva godersi finalmente un po’ di riposo e smontare metaforicamente le barriere di protezione che i suoi fan avevano allestito per difenderla da un insuccesso. O comunque da un risultato scarso rispetto alle aspettative o al limite di sicurezza immaginato attorno al 20 per cento, superiore di un punto a quel misero 19 lasciatole in eredità dal predecessore Enrico Letta.

 

 

QUEL 10 PER CENTO - Ma soprattutto la Schlein poteva godersi, naturalmente in un educato e anche un po’ opportunistico silenzio, le difficoltà del suo concorrente a sinistra Giuseppe Conte. Che ora, con quel misero 10 per cento neppure tondo cui ha ridotto il Movimento 5 Stelle, si è autocondannato ad una estate di amare riflessioni. E forse anche di paura di qualche sortita di Beppe Grillo. Del quale si è scritto -senza che l’interessato o altri abbiano ancora smentito- che né l’8 né il 9 giugno si sia scomodato a votare, preferendo la Sardegna alla sezione elettorale ligure assegnatagli dall’anagrafe.

Poteva, sempre la Schlein, godersi -ripeto- la crisi politicamente identitaria del suo concorrente sulla strada del cosiddetto campo largo, o soltanto giusto, dell’alternativa al centrodestra sognata in tutti i salotti televisivi da quel simpatico battutista Pier Luigi Bersani. E magari lavorare dietro le quinte a favore, come suggeritole in tante interviste da Goffredo Bettini, della nascita di qualcosa di nuovo, e di utile al Pd, in quell’area centrale dissestata da Carlo Calenda e Matteo Renzi, in ordine rigorosamente alfabetico: i due politici che si detestano di più fra di loro.

Due che, se fossero omosessuali, potrebbero cinematograficamente allestire una coppia per una guerra competitiva con quella eterosessuale dei Roses che ci godemmo nel 1989, a costo di distrarci dalla caduta del muro di Berlino, annessi e connessi.

 

 

IN SOCCORSO DI CONTE - Poteva tutto questo, ripeto, la segretaria del Pd. Che invece, spiazzando tutti, ha soccorso Conte difendendone il deputato Lorenzo Donno che ha conquistato le prime pagine dei giornali con quella bandiera tricolore nella quale voleva avvolgere per protesta, nell’emiciclo di Montecitorio, il ministro leghista Roberto Calderoli impegnato a spingere verso il traguardo finale il disegno di legge sulle cosiddette autonomie differenziate.

Ne è derivato tutto il casino -mi scuso per la parolaccia- che sapete e che ha conteso lo spazio mediatico persino al G7 preparato con tanta cura dalla Meloni facendo arrivare in Puglia i Grandi della Terra, con le dovute maiuscole, qualcuna magari immeritata. Un casino -ripeto- derubricato a “disordini” nei verbali parlamentari e tradottosi in una squadra di undici giocatori sospesi per un certo tempo dal campo, compreso Donno. Che si è beccato quattro giorni di allontanamento dall’aula: in verità, espulso immediatamente dalla seduta movimentata con la sua bandiera ma portato via in carrozzella perché ferito in una rissa a partecipazione multipla, secondo gli accertamenti immediatamente disposti alla Camera dal presidente leghista Lorenzo Fontana. Che è stato implacabile nella severità, sino a comminare il massimo della pena -15 giorni di sospensione - al collega di partito Igor Iezzi.

Non voglio mancare, per carità, di rispetto all’onorevole Donno, giunto al suo secondo e ultimo mandato parlamentare secondo le regole grilline, salvo modifiche dopo le riflessioni di Conte sul flop elettorale di domenica scorsa. Nato 38 anni fa a Galatina, in Puglia, e titolare -leggo su Google- di un’impresa specializzata in climatizzazione, riscaldamento ed energie rinnovabili, fedelissimo naturalmente di Conte, mi sembra esageratamente paragonato dalla Schlein, per quanto gli è successo alla Camera, al compianto Giacomo Matteotti nel centenario del suo discorso antifascista, sempre a Montecitorio, e del barbaro assassinio che ne seguì.
 

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