Che farà Paolo Gentiloni l’8 e 9 giugno prossimi? Andrà a votare ai 4 referendum lanciati dalla Cgil contro il Jobs Act approvato durante il governo di cui era ministro (Esteri) e al quesito sulla cittadinanza oppure non voterà oppure andrà e ritirerà solo alcune schede, come faranno alcuni riformisti dem? La domanda, per chi segue il Pd, è di quelle interessanti perché, come noto, il Pd sui quesiti referendari attorno a cui si voterà il prossimo week end si è diviso. Elly Schlein ha schierato il Pd su 5 sì, ma i riformisti (da Pina Picierno a Giorgio Gori, da Lorenzo Guerini, a Marianna Madia, da Lia Quartapelle a Filippo Sensi) hanno scelto un’altra strada, proponendo la formula dei 2 sì (su cittadinanza e responsabilità delle ditte appaltanti in caso di incidente sul lavoro), senza ritirare le altre 3 schede. Perché, hanno spiegato, «la condizione del lavoro in Italia passa dal futuro, non da una sterile resa dei conti con il passato».
Tornando a Gentiloni, l’ex commissario non si è pubblicamente pronunciato. Domenica primo giugno, però, al ricevimento organizzato dalla presidenza della Repubblica ai Giardini del Quirinale, fermato da una cronista de La Stampa avrebbe risposto «Non lo so ancora se andrò a votare». Chi lo conosce o lo ha sentito in questi giorni, però, smentisce: «Andrà a votare, certo». Se non altro perché, per dirla con Nanni Moretti, si noterebbe senz’altro di più se non andasse. Cosa voterà, non lo ha detto.
Nemmeno ai più vicini. Non è difficile, però, immaginare che la sua posizione sarà più simile a quella dei riformisti che non a quella di Maurizio Landini. Ma a quale dei riformisti? Perché anche i riformisti si sono divisi al loro interno. Enrico Morando, presidente di Libertà Eguale, l’associazione che a gennaio scorso invito Gentiloni a Orvieto, ed ex parlamentare del Pd, qualche giorno fa in una intervista ha criticato la posizione del Pd, osservando che «se nel periodo di vigenza del Jobs Act i contratti a termine sono aumentati meno di quanto hanno fatto i contratti stabili, questo può forse autorizzare a sostenere che il Jobs Act con questo andamento del mercato del lavoro non c’entra per nulla; ma certamente non autorizza proprio nessuno a sostenere un rapporto di causalità tra Jobs Act e precarietà».
Il problema, notava, è che le posizioni sono state dettate da un posizionamento politico più che dal merito. E se Picierno, Guerini, Gori, Quartapelle, Sensi voteranno solo 2 sì, l’euroaparlamentare Elisabetta Gualmini, per esempio, voterà un solo quesito, mettendo la croce sul sì (al quesito sulla cittadinanza). Andrea De Maria, però, già coordinatore della mozione Bonaccini, voterà 5 sì e lo stesso farà il vicepresidente dell’Emilia-Romagna Vincenzo Colla, che è stato assessore di Bonaccini (“per coerenza”, ha detto). Cosa farà Bonaccini invece non si è ancora saputo.
Ieri, intanto, Elly Schlein (e tutto il Pd vicino alla segretaria: Francesco Boccia, Marina Sereni, Arturo Scotto, Sergio Ruotolo) si sono scagliati contro Giorgia Meloni che ha annunciato di volere andare alle urne ma senza ritirare le schede. La segretaria dem ha accusato la premier di volersi “nascondere”.
«È una che si è sempre detta fiera delle sue idee invece in questo caso si è nascosta, ha scelto di scappare» perché «andare alle urne e non ritirare la scheda equivale a non votare». Ma a non ritirare qualche scheda, scelta legittima, saranno anche tanti esponenti dem. Tra cui, probabilmente, anche Gentiloni.