Il racconto della disfatta può cominciare da Castelnovo ne’ Monti, diecimila anime in provincia di Reggio Emilia. Maurizio Landini è nato qui 64 anni fa, e qui ieri i seggi per i referendum hanno chiuso con un’affluenza del 34,3%. Al capo della Cgil non è andata granché meglio nel suo capoluogo: nella roccaforte rossa emiliana i votanti sono stati il 43%. Flop anche a Bologna, città adottiva di Elly Schlein: il 47,7% degli aventi diritto ha messo le schede nell’urna, gli altri sono rimasti a casa o hanno scelto la gita sui colli. E poi, come sempre quando si fanno i conti della partecipazione politica, c’è il doloroso “capitolo Sud”. «Tutti a votare!», aveva detto Giuseppe Conte. Ma neppure nella sua Volturara Appula gli hanno dato retta: nell’unico seggio ha votato il 36,2% degli elettori. E la capacità dei Cinque Stelle di mobilitare gli elettori meridionali si è rivelata un’utopia: nel Mezzogiorno solo la Basilicata ha visto una partecipazione superiore al 30%. Nemo propheta in patria. Ma il problema è molto più vasto e riguarda tutta la sinistra.
Tirando le somme: affluenza media nazionale ferma al 30,6%, che scende attorno al 28% tenendo conto del voto all’estero, e quorum lontanissimo. Nessuna regione ha raggiunto il 40% di votanti, quella che c’è andata più vicino è la Toscana, col 39,1%, seguita dall’Emilia-Romagna un punto più sotto. Record negativi di partecipazione in Trentino-Alto Adige (22,7%) e Sicilia (23,1%). La Caporetto del campo largo. Assieme alla distanza tra Nord e Sud, si conferma quella tra i capoluoghi di regione e il resto d’Italia, ormai una costante della politica italiana, con i primi («l’Italia del Frecciarossa») sempre a sinistra e il secondo assai più a destra. L’affluenza a Roma e provincia sfiora il 34%, la più alta di tutto il Lazio (31,9%), e in alcune sezioni della capitale, come quella in via Ruggero Bonghi, nel rione centrale dell’Esquilino, la soglia del 50% è stata addirittura superata. In Lombardia (30,7% complessivo) la partecipazione più alta si è registrata a Milano e provincia (35,4%), in Piemonte (35,2%) a Torino (39,3), in Liguria (35,1%) a Genova (38,5%), in Emilia-Romagna (38,1%) a Bologna (44,6% in tutta la provincia e 47,7% in città), in Toscana (39,1%) a Firenze (46%).
Anche nel momento peggiore dell’opposizione, le Ztl e i quartieri che le circondano hanno risposto meglio del resto d’Italia all’appello di Schlein e della sinistra. La bocciatura è comunque netta su tutto il territorio nazionale, dove non c’è un solo capoluogo di provincia che abbia raggiunto il quorum. Stefano Ceccanti, costituzionalista e già parlamentare del Pd, risponde a quelli del suo partito, come il capogruppo al Senato Francesco Boccia, che parlano di «grande risultato» perché «in 15 milioni si sono espressi». «Se non mobiliti neppure la metà più uno dei votanti alle precedenti politiche (64%)», dice Ceccanti, «che è il quorum ragionevole che si auspica, hai perso e lo dovresti ammettere». A votare, infatti, sono stati poco più di 14 milioni di italiani, nemmeno la metà dei 29,4 milioni che andò ai seggi il 25 settembre del 2022. E i «Sì» ai referendum sul lavoro si sono fermati a 12 milioni, meno dei 12,3 milioni di schede che quel giorno decretarono la vittoria della destra.
A rendere più dolorosa la sconfitta per la sinistra c’è il netto distacco tra i «Sì» ai quattro referendum per cambiare la legislazione sul lavoro e quelli per il quinto quesito, su scheda gialla, il cui obiettivo era riscrivere la legge per la concessione della cittadinanza, in modo da ridurre da dieci a cinque anni il tempo di residenza legale in Italia necessario per presentare la domanda. Era il referendum su cui più avevano investito il Pd, Sinistra italiana, i radicali di Riccardo Magi e associazioni come l’Arci, le Acli e numerose ong, anche d’ispirazione cattolica. Conte, pur annunciando che avrebbe votato «Sì» a titolo personale, in questo caso aveva lasciato «libertà di coscienza» a eletti ed elettori del M5S.
Bene, anzi male per i referendari. Mentre i votanti favorevoli a cambiare la legislazione sul lavoro oscillano attorno all’88%, con piccole differenze tra i diversi quesiti, quelli che si sono espressi in favore della riforma della cittadinanza si sono fermati al 65,4%: non arrivano a 9 milioni. Gli altri, quasi il 35%, pur votando, lo hanno fatto per dire che le regole non devono cambiare. Ed è andata così ovunque: ha messo la croce sul «No» alla cittadinanza facile il 37,3% dei votanti in Lombardia, il 36% in Piemonte, il 35,7% in Emilia-Romagna, il 34,6% in Liguria, il 33% in Toscana, il 31% nel Lazio. Questi 3 milioni abbondanti di «Sì» in meno sulla scheda gialla, questo 23% di differenza con i quesiti sul Jobs Act, possono indicare due cose, l’una delle quali non esclude l’altra.
La prima è che tra coloro che hanno votato c’è una quota non irrilevante di elettori di destra. Che vogliono cambiare la normativa sul lavoro perché spinti da motivi personali o sindacali, ma non intendono sentir parlare di altre aperture agli immigrati. Se è così, a maggior ragione, sbagliano quelli che a sinistra s’intestano i «15 milioni» (in realtà 14, come visto) che sono andati ai seggi: sarebbero parecchi di meno, in realtà. L’altra ipotesi è che una quota ampia degli elettori di sinistra che hanno votato i referendum la pensi all’opposto di Schlein e compagni sulla politica per l’immigrazione, argomento che è in cima all’agenda del Pd e dei partitini alleati. In ogni caso, quel 34,6% di «No» è una brutta notizia per la segretaria. E va da sé che ogni pretesa di cambiare la legge sulla cittadinanza è stata seppellita dal voto di ieri. Complimenti alla stratega.