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Silvio Berlusconi, il Cavaliere che amò il popolo e cambiò gli avversari

"L’Italia è il paese che amo". Con queste parole scandite con sapiente semplicità, il 24 gennaio 1994 Silvio Berlusconi annuncio agli italiani dagli schermi televisivi la sua “discesa in campo”
di Corrado Ocone venerdì 13 giugno 2025

3' di lettura

"L’Italia è il paese che amo». Con queste parole scandite con sapiente semplicità, il 24 gennaio 1994 Silvio Berlusconi annuncio agli italiani dagli schermi televisivi la sua “discesa in campo”, come la chiamò con efficace metafora calcistica (“Forza Italia” si chiamò, d’altronde, il suo partito). Da allora nulla fu più come prima in politica se non nella società italiana (quest’ultima era infatti già molto cambiata e Berlusconi fu il primo ad accorgersene). Nulla fu come prima nei discorsi dei politici: il Cavaliere parlava un italiano correttissimo ma sapeva farsi capire da tutti, parlava dei problemi concreti che stavano più a cuore alla gente qualunque e rifuggiva dai barocchismi gergali e dai voli pindarici nei ceti dell’astrazione.

Amava veramente il suo popolo perché nei suoi confronti non si poneva in quell’atteggiamento di superiorità che è di chi pretende di educarlo per farlo diventare altro da quello che è, con i suoi difetti ma anche con i suoi innumerevoli pregi. Non amava i vecchi intellettuali di regime, più o meno opportunisti, ma aveva una sensibilità unica per la cultura, quella vera e senza autocompiacimenti di chi ha speso con umiltà la vita sui libri per amor di sapere. Amò perciò circondarsi da subito dei cosiddetti “professori”, uomini di cultura fino allora allergici alle ideologie patrie e perciò messi in disparte dalle camarille che contano. Esaltò le virtù borghesi di chi come lui si è fatto da sé e non ha preteso dallo Stato o dagli altri sussidi o sussistenze. In una parola: annunciò una “rivoluzione liberale” nel Paese in cui avevano trionfato le opposte ideologie e ove prima che chi sei conta a chi appartieni.


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« E ancora: esaltò la libertà ed equiparò i totalitarismi in un paese ove la cultura liberale non aveva mai attecchito e parole come mercato, impresa, competizione, erano bandite dal discorso pubblico. Capì che qualcuno pretendeva di non fare i conti fino in fondo col proprio passato e aveva trasformato l’antifascismo in una ideologia che aveva molti tratti a loro volta “fascisti”. Capì pure che c’era una parte d’Italia che aveva dovuto nascondere di essere conservatrice e si era dovuta accontentare di votare la Dc “turandosi il naso”.

Desacralizzò la politica e fece capire, con i suoi atteggiamenti e le sue parole (anche le tanto amate barzellette),che non prendersi sul serio è spesso indice di serietà. Mandò il messaggio, che fu accolto, che prima della politica ci sono la vita, la famiglia, le proprie convinzioni private, le amicizie. Fu sempre rigorosamente atlantista in un Paese che lo era stato spesso suo malgrado. Il centrodestra oggi al potere è di certo suo figlio nonostante esso sia pur tanto diverso nelle componenti e nelle sensibilità che lo compongono da quello che in quattro e quattr’occhi Berlusconi mise in piedi nel 1994 infrangendo i sogni della “gioiosa macchina da guerra” occhettiana. Berlusconi era uomo di parte ma voleva piacere a tutti. Credo che ci sia finalmente riuscito oggi che è morto, diventando persino una icona pop e un’immagine familiare per gli italiani di ogni parte politica. Il tempo è galantuomo, se persino i più acerrimi suoi avversari oggi gli rendono omaggio (non si sa quanto sincero). Gli storici faranno il computo delle realizzazioni e dei fallimenti (che pur ci furono) della sua politica. Quel che premeva dire in questa sede è che egli ha cambiato la grammatica e la retorica della politica italiana. In meglio.

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