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Gli ex Pci tifavano Mosca, ora vogliono insegnare la democrazia all’Ungheria

di Antonio Socci domenica 29 giugno 2025

4' di lettura

Walter Veltroni è il più rappresentativo leader della sinistra. Nel 1970, al tempo di Breznev, si iscrisse alla Fgci, organizzazione giovanile del Pci, di cui diventò poi dirigente. Agiografo ufficiale di Enrico Berlinguer (che fu il pupillo e l’erede politico di Togliatti), Veltroni è stato direttore dell’Unità, vicepremier di Prodi, ministro della Cultura, sindaco di Roma e il primo segretario del Pd (forse sarà il prossimo candidato al Quirinale).

Ieri ha firmato un editoriale contro Trump (...) sul Corriere della sera (dove pure il direttore arriva dall’Unità), con questo titolo: «Ma che fine ha fatto la serietà?». È un titolo che qualcuno può facilmente ribaltare: ci si può chiedere «che fine ha fatto la serietà» anche quando si vedono persone, che sono state militanti e dirigenti del Pci al tempo dell’Urss, che oggi pretendono di insegnare la democrazia (anche agli americani).

Veltroni era ancora orgogliosamente comunista nel 1989. Il segretario del Pci, Achille Occhetto, di cui egli era stretto collaboratore, al 18° congresso del partito, nel marzo 1989, fra gli applausi esaltò Carlo Marx («un grande uomo»), dichiarò «fuori discussione la rinuncia alle nostre idealità socialiste» e, contro chi esortava a cancellare il nome «comunista», tuonò: «Il nome che portiamo non evoca soltanto una storia, ma richiama anche un futuro... Non si comprende perché dovremmo cambiare nome. Il nostro è stato ed è un nome glorioso che fa rispettato».

Otto mesi dopo, davanti al crollo del Muro di Berlino, corse precipitosamente ad annunciare il cambio del «nome glorioso». Ma cambiarono solo il nome sul campanello, non la classe dirigente, né la politica. Nessun rinnegamento di tutta la storia comunista. Nessuna autocritica.

Scrollata la polvere del Muro continuarono a rivendicare la superiorità morale della sinistra e ancora oggi stanno in cattedra a insegnare agli altri la serietà e la democrazia. Un fenomeno stupefacente. Sia chiaro: tutti possono partecipare alla vita pubblica, anche quanti sono stati dirigenti comunisti al tempo dell’Urss, ma se pretendono di salire in cattedra per insegnare agli altri la democrazia e la serietà, senza mai aver condannato il comunismo del loro Pci, si ha il diritto chiedere «che fine ha fatto la serietà?».

Un caso del genere è anche quello della segretaria del Pd che ieri è andata al Gay Pride di Budapest per dare una lezione di democrazia al premier Viktor Orban.
Ovviamente Elly Schlein non ha fatto in tempo a iscriversi al Pci essendo nata nel 1985. Ma guida il Pd che è il partito erede (Berlusconi diceva: Pci/Pds/Ds/Pd), e ne è ben consapevole e fiera visto che, sulla tessera, ha voluto riprodurre l’immagine di Berlinguer, celebrando la continuità politica.

Ci si chiede: Schlein è proprio sicura che andare, in veste di segretaria del Pd, a insegnare la democrazia agli ungheresi sia una decisione opportuna? La memoria storica pesa, è importante. Gli ungheresi non dimenticano le loro tragedie. A prescindere dall’attuale contesa sul Gay Pride, su cui ognuno può avere la sua idea, e a prescindere pure dall’ovvio diritto di chiunque di criticare il governo Orban, è giusto chiedersi se il partito erede del Pci abbia i titoli per dare lezioni di democrazia proprio agli ungheresi. Non ne sono sicurissimo. Com’è noto questo Paese nel 1956 è stato vittima di una delle repressioni più sanguinose che l’Urss abbia perpetrato nei regimi dell’Est europeo. Cosa accadde?

Il 23 ottobre 1956 in tutta l’Ungheria iniziarono manifestazioni popolari che chiedevano un governo democratico e la partenza delle truppe sovietiche ancora presenti. Dopo una settimana le truppe sovietiche invasero in massa il Paese e schiacciarono nel sangue la rivolta democratica facendo migliaia di morti (molti ungheresi scelsero l’esilio).

È noto che il Pci, che era il più forte partito comunista d’occidente, legatissimo, in tutti i sensi, a Mosca, approvò entusiasticamente l’invasione. Togliatti scrisse sull’Unità che «una protesta contro l’Unione Sovietica avrebbe dovuto farsi se essa (...) non fosse intervenuta, e con tutta la sua forza, questa volta, per sbarrare la strada al terrore bianco e schiacciare il fascismo nell’uovo».

Questa terribile posizione del Pci è cosa nota. Ma quando è crollato il comunismo sono stati aperti gli archivi e si è scoperto anche altro. Togliatti era stato fra gli uomini più fedeli a Stalin, aveva un notevole peso a Mosca e «si schierò dalla parte stalinista durante le cruciali scelte della politica estera sovietica del dopo-Stalin» (Aga Rossi-Zaslavsky). La «novità più sorprendente» emersa dagli archivi sovietici è il suo telegramma del 30 ottobre 1956: «insistendo su misure drastiche e violente» nei confronti dell’Ungheria, riassume Victor Zaslavsky «Togliatti sfruttava la sua posizione di leader comunista occidentale più autorevole e più ascoltato per spingere i sovietici verso l’invasione».

Egli non sapeva che in quelle ore «il Politburo aveva appena deciso di ritirare le truppe dall’Ungheria» e - spiega Zaslavsky«non c’è nessun dubbio che la lettera di Togliatti rafforzò la posizione degli stalinisti... La sollecitazione di Togliatti ebbe certamente un suo peso nella decisione finale del 31 ottobre», quella dell’invasione.
Dunque il Pci non solo approvò la feroce repressione del popolo ungherese, ma il suo leader «sollecitò l’intervento militare sovietico». Questa è la storia e non si può ignorare. In conclusione: il Pd, in quanto erede del Pci, anzitutto avrebbe dovuto chiedere scusa agli ungheresi.


www.antoniosocci.com

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