Viva Alessandro Giuli che, forse perché ha vissuto all’intersezione tra i due mondi (sissignore, trattasi di intellettuale di vaglia, a volte troppo afferrato dall’ansia di mostrarlo, ma chilometri sopra le mezze calzette del Politicamente Corretto), spezza l’automatismo insano tra letteratura e politica. Perché c’è questo, al fondo della querelle esplosa tra il ministro della Cultura (che come annunciato non ha partecipato alla cerimonia finale) e il Premio Strega, organizzato dalla Fondazione Bellonci: il dogma della Chiesa progressista sull’eterno collateralismo reciproco tra arte di governo e arte della parola. Infranto da Giuli nel modo più spettacolare. Per dirla poco letterariamente: spedendo lo Strega in periferia. Per essere più cronachistici: fonti del Ministero hanno fatto trapelare che per l’anno prossimo ci si «riserva di offrire alla Fondazione Bellonci la sede di Cinecittà, in via Tuscolana 1055». Con tanti saluti al Ninfeo della cinquecentesca Villa Giulia, adagiata su viale delle Belle Arti, alle pendici dei Monti Parioli.
Insomma, un trasloco fisico che pare anche sommamente simbolico, il congedo da una nobiltà formale data a lungo per scontata, ma che effettivamente non è detto si specchi per forza nella sostanza letteraria. Il tutto, spiegano sempre dalle parti del MiC, «in piena coerenza con i principi del Piano Olivetti volti alla valorizzazione delle periferie metropolitane attraverso la presenza di rassegne culturali di eccellenza indirizzate principalmente alle giovani generazioni lontane dai centri storici». Questo, obiettivamente, è un colpo da maestro. All’ultima mano, Giuli cala le carte (in fondo, il confine tra il dandy e il gambler è labile) e scopre una scala reale. Sfratta un tempio laico del luogocomunismo culturale italiano come lo Strega da quella che è sempre parsa la sua sede indiscussa e dovuta, in nome di un classico della retorica di sinistra: la rivitalizzazione delle periferie attraverso la cultura. Solo che lui non declama, lui lo fa. E, quel che è peggio per i suoi avversari, lo fa all’interno di un Piano dichiaratamente ispirato a un nume del comunitarismo democratico e dell’imprenditoria illuminata come Adriano Olivetti. Cosa possono dirgli? Nulla. Prima, avevano dissertato parecchio. La scrittrice Viola Ardone su La Stampa lo aveva rimbrottato perché la sua assenza dalla gran soirée «celebra una separazione» tra «quelli che dovrebbero essere i coniugi di un matrimonio felice: gli artisti, gli intellettuali, gli scrittori, e il ministero che di cultura dovrebbe occuparsi, alla cui tutela dovrebbe essere preposto». Voi pensate se Dostoevskij, Céline, Cormac McCharty (per non risalire ad Aristofane, che con le sue Commedie dileggiava l’intera classe dirigente ateniese) avessero mai avuto come preoccupazione quella di farsi “tutelare” dal potere politico: avremmo parecchi capolavori in meno. Il giallista Maurizio De Giovanni ci informa su Repubblica che l’assenza di Giuli denota una «sindrome da risentimento culturale» (tesi assai ardita se riferita a un ministro avvezzo a citare Hegel nei discorsi al Parlamento, evenienza per cui fu anche preso in giro dalle anime belle: Giuli sbaglia sempre, in sintesi).
Nel ping-pong interno al Gruppo Gedi si torna su La Stampa, dove Emanuele Trevi, vincitore del Premio nel 2021, appoggia paradossalmente la decisione di non presentarsi: per il ministro «è meglio andare a Porta a Porta, dove almeno non c’è un clima a lui ostile». E l’ostilità sarebbe motivata dalla «pratica infame» di questo governo di «querelare gli intellettuali» (immaginiamo si riferisca a quell’inaccettabile rigurgito neofascista per cui Roberto Saviano non può dare del mafioso al ministro dei Trasporti e della “bastarda” alla premier). Fin qui, le circonvoluzioni della bolla autorial-engagé. Poi, c’è la realtà fattuale raccontata da Giuli: «Sono stato invitato alla serata del premio Strega, sono stati carinissimi, però non ho ricevuto nessun nessun libro. È un po’ curioso che uno debba andare alla serata non avendo ricevuto i libri». Uno sfondone ammesso dagli stessi organizzatori, visto che secondo quanto si apprende Stefano Petrocchi, direttore della Fondazione Bellonci, ha inviato i volumi al ministro ieri, a qualche ora dalla premiazione, con un biglietto che è un caso di scuola di autoironia non riuscita: «Meglio tardi che mai». A volte, meglio della spiritosaggine forzata c’è la serena ammissione dell’errore. Ne riparleremo, la prossima volta in periferia, se i calessi di lorsignori ci arriveranno.