Il caso Kaufmann ha portato all’attenzione del grosso pubblico quel che in molti sapevamo: il sistema dei finanziamenti pubblici, diretti o indiretti, a film e produzioni ha favorito truffe di ogni tipo, a beneficio di una ristretta cerchia di “soliti noti” e “ben agganciati”. Film che, come ha notato il presidente del Consiglio, a fronte di laute sovvenzioni da parte dello Stato, hanno fatto poi cilecca al botteghino. Cattiva gestione? Mancanza di controlli? Clientelismi? Senza dubbio. E bene fa il governo a correre ai ripari, non temendo la prevedibile reazione di lobby potenti, di vip più o meno riconosciuti, di circoli e circoletti. Sarebbe però errato pensare che il problema sia solo di gestione dei fondi. Esso, più radicalmente, è proprio nell’idea che lo stato debba, con la sua potestà, vidimare preventivamente i progetti e quindi, in qualche modo, stabilire ciò che è artistico, ossia ha valore cinematografico, distinguendolo da ciò che non lo ha. Mai come in questo momento è necessario ricordare che non solo la creatività non nasce per volontà legislativa, ma essa rischia di essere castrata da un intervento troppo diretto e pervasivo dello Stato.
La tesi che mi preme sottolineare è che un sistema culturale iperprotetto genera per forza di cose conformismo, mediocrità, omologazione, cioè quei tratti che caratterizzano, in linea generale (anche se ovviamente non mancano le eccezioni), la produzione cinematografica italiana degli ultimi anni. Una tesi che è suffragata da ragioni teoriche e comprovata dall’esperienza storica. Dal primo punto di vista, è una pia illusione pensare che una commissione nominata dallo stato possa essere assolutamente “neutrale”, imparziale. Le commissioni sono fatte da uomini in carne ed ossa, con le loro idee e i loro interessi, con i propri pregiudizi e i propri gusti. Già solo riconoscerlo sarebbe un gran passo in avanti. In Italia, tuttavia, negli anni passati è successo che critici ed esperti (spesso anche di livello) hanno fatto passare un determinato punto di vista, il loro, come universale, escludendo gli altri: vuoi per ideologia, vuoi semplicemente per compiacere chi li aveva nominati e dava lavoro e visibilità. Non c’è da meravigliarsi. Sono dinamiche intrinseche ad ogni forma di statalismo, e quindi anche a quello che concerne la cultura. La quale però, per raggiungere l’eccellenza, ha bisogno di agire in un clima di assoluta libertà e cioè di non dipendenza né dal potere economico né da quello politico. Come accade anche nella vita individuale, i regimi protettivi infiacchiscono gli animi, castrano la volontà, generano conformismo e mediocrità.
La storia conferma la teoria. Il cinema italiano ha avuto momenti di straordinaria eccellenza, riconosciuti a livello mondiale. Certi film hanno fatto la storia del cinema, sono entrati nell’immaginario comune, hanno ispirato i più grandi registi: pensiamo alla stagione del neorealismo, a quella della commedia all’italiana, ai film di genere come i cosiddetti “Spaghetti western” o persino i film di fantascienza realizzati da Antonio Margheriti (osannati e citati persino da un regista come Tarantino).
Questi film disponevano, il più delle volte, di budget ridicoli e furono realizzati tra mille difficoltà, sia imprenditoriali sia di contesto (anche politico). Queste difficoltà finirono però per spronare la fantasia dei registi e l’arte attoriale dei protagonisti. Senza dimenticare i mille mestieri, all’inizio quasi artigianali, che si svilupparono a latere e che in qualche modo fecero la fortuna di Cinecittà. Certo, quei tempi non ci sono più. Ad essi senza dubbio non si può ritornare, ma ricordare lo spirito che li animava e le condizioni che li resero possibili può farci riflettere. Siamo proprio sicuri che tagliare e razionalizzare il sistema dei fondi alle attività cinematografiche sia un delitto di lesa maestà alla Cultura?