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Almasri, il piano anti-Meloni delle toghe: vogliono far cadere l’esecutivo

Magistrati al lavoro per la spallata alla maggioranza. È la vendetta per le riforme
di Mario Sechi mercoledì 6 agosto 2025

5' di lettura

Il caso Almasri sarà il tormentone d’agosto e andrà avanti per mesi, il suo sviluppo è di notevole interesse, prima di tutto perché, ancora una volta, la magistratura diventa lo strumento per tentare la spallata al governo e la sinistra in assenza di argomenti politici, cavalca l’inchiesta giocando al tanto peggio tanto meglio, secondo la tradizione italiana dello «sfascio». Sei sono gli elementi che ne definiscono la traiettoria. 1. Coinvolge i vertici dello Stato: gli atti trasmessi ieri dal Tribunale dei ministri alla Giunta per le autorizzazioni di Montecitorio confermano la richiesta di autorizzazione a procedere per il ministro della Giustizia Carlo Nordio, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e il sottosegretario Alfredo Mantovano. In questo scenario, la surreale decisione di archiviare la posizione di Giorgia Meloni è un elemento ancora più grave, in quanto si suppone che la premier non fosse informata e non abbia preso alcuna decisione in una vicenda che coinvolge la sicurezza nazionale. Si tratta di un’ipotesi completamente fuori dalla realtà quotidiana di Palazzo Chigidi cui ho conoscenza diretta - dove vige un sistema di “monarchia costituzionale” dove Meloni ha sempre l’ultima parola su tutti gli atti dell’esecutivo. Per numero e importanza delle funzioni degli indagati, siamo di fronte a un fatto senza precedenti nella storia della Repubblica;

2. È un’inchiesta che appare come un’anomalia fin dalla genesi (nasce dalla denuncia di un avvocato specializzato nella gestione di pentiti che prende spunto da resoconti di giornali ben sintonizzati con l’opposizione), ignora completamente come funziona il governo e quali sono i rapporti tra le istituzioni, al punto che il tribunale dei ministri nega la testimonianza alla figura chiave di tutta la vicenda, il sottosegretario Alfredo Mantovano, cioè colui che ha la delega sui Servizi Segreti, autorizza i voli di Stato, prepara gli atti del governo, è il motore della macchina di Palazzo Chigi. Evidentemente la testimonianza di Mantovano - uomo delle istituzioni di lungo corso, magistrato, consigliere della Corte di Cassazione avrebbe smontato l’impianto dell’inchiesta;

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3. È un’altra invasione della magistratura nel campo della politica, si arriva addirittura a interferire sull’esercizio del diritto-dovere da parte del governo (che dispone non a caso delle agenzie di intelligence e delle forze dell’ordine) di decidere sulle questioni di sicurezza nazionale e sui rapporti internazionali; 4. Il caso Almasri è destinato a diventare un’operazione di propaganda con la pubblicazione sui giornali di testimonianze, conversazioni e atti delicatissimi che coinvolgono i vertici dello Stato, dei Servizi Segreti, delle forze dell’ordine. Gli apparati di Sicurezza saranno esposti a una campagna che punta a screditarne il lavoro, la legittima azione politica di Palazzo Chigi sarà strumentalizzata con un solo obiettivo: colpire Giorgia Meloni e cercare di affondare il governo. 5. Il quinto elemento è la cornice che tiene insieme le varie scene del quadro. Non sfugge a nessuno che l’inchiesta Almasri faccia parte di una sequenza di azioni della magistratura contro il governo a vari livelli (in Europa e in Italia) mentre viene varata una profonda riforma della Giustizia, a cominciare dalla separazione delle carriere. L’opposizione dei magistrati è oltre la decenza istituzionale, gli episodi sono ripetuti e assumono la forma di un contro-potere che si scaglia contro il Parlamento e attacca le prerogative del governo e delle Camere. Ho sentito il Presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Cesare Parodi, fare alcune affermazioni che meritano un approfondimento in questo senso.

A una domanda del conduttore di Radio Anch’io, Giorgio Zanchini, su un futuro coinvolgimento di Giusi Bartolozzi, capo di gabinetto del ministro della Giustizia Carlo Nordio, nell’inchiesta Almasri, il numero uno dell’Anm ha risposto che in quel caso ci sarebbero «conseguenze politiche». Parodi, vista la carica che ricopre, avrebbe potuto (e dovuto) rispondere in una maniera più istituzionale e misurata, dire per esempio che la Bartolozzi non risulta indagata, che la domanda del giornalista è l’anticipazione di uno scenario che non ha riscontri e che dunque la risposta rischia di diventare un giudizio preventivo da parte del capo dell’Anm. Ma Parodi il problema istituzionale non se lo è posto e si è avventurato proprio in quello che non doveva fare: dare un giudizio anticipato su un procedimento che viene “mormorato”.

Vista la reazione dura del ministro Nordio, Parodi ha replicato che non ha mai pronunciato il nome di Bartolozzi (vero) e che il suo era un ragionamento generale, ma è proprio qui che casca: rispondeva a una domanda su un tema preciso, con il nome di una persona a cui corrisponde una funzione chiave nel ministero della Giustizia, il suo ragionare astratto era in realtà riferito a un fatto non verificato, ventilato, bisbigliato, allo stato gassoso ma perfetto per creare trambusto. Quello di Giusi Bartolozzi sarà il prossimo capitolo del caso Almasri. Il secondo elemento notevole dell’intervista di Parodi è la sua idea che la responsabilità politica e quella penale possono essere separate. Nel caso Almasri e nella decisione di archiviare la posizione di Giorgia Meloni, con tutto il rispetto, il ragionamento di Parodi (anche questo generale?) cola a picco. Il segretario dell’Anm dimostra - come il Tribunale dei ministri nella sua decisione di archiviare la posizione di Meloni - di non conoscere il funzionamento della macchina di Palazzo Chigi. Nel governo Meloni non può esserci una separazione di questo tipo perché tutte le decisioni strategiche- e quella su Almasri lo era in massima misura, trattandosi di una questione di sicurezza nazionale - sono alla fine prese dal Presidente del Consiglio. Giorgia Meloni è un leader esecutivo, esercita il primato della politica. La magistratura questo primato non solo lo separa dalla responsabilità personale - come fa Parodi - ma lo svuota di senso, fino a minacciarne l’autonomia. Almasri è tornato in Libia per una ragione di una logica stringente: la sua detenzione in Italia avrebbe costituito un serio rischio per la stabilità dei rapporti internazionali con la Libia, di cui il capitolo immigrazione è il principale, ma non l’unico, visto che in Libia sono presenti importanti aziende italiane (la prima è l’Eni) e il compito del governo è quello di salvaguardare la vita delle persone e gli interessi economici della nazione all’estero.

Almasri ha viaggiato indisturbato per mezza Europa (vola da Tripoli a Londra, poi passa a Bruxelles, assiste a una partita di calcio in Germania e si fionda in Italia, a Torino, per vedere un incontro della Juventus) e dopo 12 giorni di gita calcistica viene chiesto all’Italia di arrestarlo. Il sospetto che si volesse scaricare il “problema libico” sull’Italia è fondato e il governo ha agito correttamente sulla base dell’interesse nazionale e non su diktat di una Corte penale internazionale screditata, le cui sentenze non godono di alcun automatismo e non a caso devono essere vagliate dal Guardasigilli. 6. C’è un sesto punto, è quello della posta in gioco: riguarda il senso più profondo del fare politica, il suo primato, l’equilibrio tra i poteri, la lealtà tra le istituzioni, la democrazia rappresentativa e la volontà popolare, che sono finiti sotto la toga delle procure e del piccolo establishment irresponsabile. Meloni ha un compito ben più grande di quello di difendere il suo governo e la maggioranza, deve salvare la Repubblica dal rischio del «governo dei giudici».

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