Di preterintenzionale non c’è solo l’omicidio, punito dall’articolo 584 del codice penale col carcere dai 10 ai 18 anni. C’è anche un favore o persino un miracolo. Come quello o quelli compiuti involontariamente dalla magistratura archiviando un procedimento contro la premier Giorgia Meloni e lasciandolo aperto a carico dei ministri della Giustizia Carlo Nordio e dell’Interno Matteo Piantedosi, nonché del sottosegretario alla Presidenza dl Consiglio Alfredo Mantovano, delegato ai servizi segreti. Un procedimento per favoreggiamento, peculato, omissione a causa del rimpatrio del generale Almasri in Libia con volo di Stato dopo essere stato arrestato in Italia per reati contro l’umanità, contestatigli dalla Corte penale internazionale dell’Aja, ma rilasciato dalla Corte d’Appello per irregolarità nella documentazione rilevate, nella sua competenza, dal ministro della Giustizia.
La separazione delle responsabilità fra quelle escluse dalle indagini a carico della premier e quelle invece ancora attribuite agli altri tre esponenti del governo, giudicabili dal cosiddetto tribunale dei ministri su autorizzazione parlamentare, ha fornito a Giorgia Meloni l’occasione di ripristinare un costume politico e morale alquanto travolto, a dir poco, da anni di confusione. Se non vogliamo dire di più. Meloni non ha accettato di essere scambiata per quella che lei stessa ha definito “Alice nel paese delle meraviglie”, o un presidente del Consiglio al suo posto in modo inconsapevole.
Ogni allusione - resa poi esplicita dal vice presidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini con pubbliche dichiarazioni - era naturalmente voluta, anch’essa, a Giuseppe Conte. Che da presidente del Consiglio nel 2019, diversamente da un’analoga vicenda precedente, volle dissociarsi dallo stesso Salvini, anche allora vicepresidente del Consiglio ma pure ministro dell’Interno, nella gestione dello sbarco di immigrati clandestini soccorsi dalla nave spagnola Open arms decisa a scaricarli solo in un porto italiano. Ne derivò un lunghissimo processo, autorizzato in Parlamento col voto determinante delle 5 Stelle di Conte, non vinto ma stravinto da Salvini in primo grado con formula piena di assoluzione.
La difesa che la premier ha voluto fare del suo ruolo sul piano istituzionale e politico schierandosi a favore dei due ministri e del sottosegretario che la magistratura ha voluto separare da lei, forse nella consapevolezza dell’impatto autolesionistico di un processo anche a carico del presidente del Consiglio, può segnare un punto di svolta nei rapporti fra magistratura e politica in senso lato, e fra magistratura e governo nel contesto dell’attuale quadro politico. Anzi, deve segnare un punto di svolta. E credo che la premier abbia voluto, giustamente, puntare soprattutto su questo con la sua vigorosa protesta.
È ora che non solo la magistratura si contenga, come diceva la buonanima di Silvio Berlusconi, ma anche che la politica finisca di giocare da sponda in una partita cominciata sotto traccia una quarantina d’anni fa ma esplosa nel 1992 con le “mani pulite” assunte come slogan dalla Procura di Milano. Una partita diventata talmente perversa che ad un certo punto è stata la stessa politica a indurre in tentazione la magistratura. Non solo da sinistra, usandone le iniziative contro chi stava vincendo un’altra grande partita che era quella contro il comunismo. Ma paradossalmente anche da destra. Penso al Berlusconi che di fronte alle proteste da pronunciamento dei pm di Milano nel ’94 rinunciò alla conversione di un decreto legge contro le manette facili. O al vanto fattosi in questi giorni da Gabriele Albertini, che pure stimo molto, di avere governato Milano in un rapporto “simbiotico” con la procura della Repubblica.