Quindi ad Anchorage, in Alaska, non c’è stata solo una «sfilata sul tappeto rosso» o «russo» che dir si voglia. A Ferragosto, Donald Trump e Vladimir Putin non si sono limitati a soddisfare – rispettivamente – la propria vanità e il desiderio di uscire dall’isolamento internazionale. Questo nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore, a leggere i resoconti della stampa dopo il summit, le intenzioni del presidente americano erano buone, ma l’esito è stato comunque disastroso: «La sconfitta storica di Trump» (Domani); «la ritirata di Trump» (La Stampa); «Trump-Putin, l’intesa non c’è» (Corriere della sera), «Trump sconfitto, non incassa la tregua» (La Repubblica).
Poi c’è stata la maratona nello Studio Ovale di lunedì scorso. Volodymyr Zelensky e i leader Ue alla Casa Bianca, le discussioni sulle garanzie occidentali, i passi avanti verso i prossimi vertici aperti alla Russia, la telefonata di Trump a Vladimir Putin. Insomma, quantomeno l’avvio di un percorso negoziale. Così gli stessi quotidiani che venerdì ridicolizzavano il summit hanno iniziato a correggere il tiro. Senza riuscire, tuttavia, a mascherare la rabbia per la necessità di prendere atto che sì, forse nella lettura dell’esito dell’incontro di Anchorage qualche errore è stato commesso.
E DONALD DIVENTA «MEDIATORE»
Ecco Repubblica, ad esempio, riconoscere, grazie all’ex direttore Maurizio Molinari, che Trump è ormai assurto al ruolo di mediatore tra le parti: «La difficile mediazione per porre fine alla guerra in Ucraina supera una seconda tappa, riuscendo a mettere sul tavolo altre pedine». Ma se quella di lunedì è stata la seconda tappa, allora tanto disastrosa non deve essere stata la prima, quella in Alaska. Appuntamento «servito a Trump per coinvolgere Vladimir Putin nella trattativa, fargli accettare che l’Ucraina avrà garanzie di sicurezza occidentali». Non proprio un passaggio irrilevante.
Su questo, dopo aver denunciato l’assenza di «svolta» a Ferragosto, concorda anche il Corriere, che ora - nelle cronache - spiega che la prima cosa spiegata dal Presidente agli alleati è stata «quali fossero le richieste avanzate da Putin nel vertice di Ferragosto». E dunque, anche in questo caso la considerazione viene da sé: non è che venerdì scorso, invece di essere una pura e semplice passerella a favore del presidente russo, si è trattato di un primo tempo indispensabile per l’avvio della trattativa? Certo, come osserva con un pizzico di livore l’ambasciatore Stefano Stefanini sulla Stampa, le incognite sono molte- le garanzie occidentali fuori dall’ombrello della Nato, l’assenza del cessate il fuoco, un trilaterale tutto da costruire - al punto che tra Usa e Ue «rimane un fossato», ma intanto il negoziato non è più un’utopia. Avvenire, che dopo l’incontro di Anchorage aveva gridato, senza fantasia, al «tappeto russo», ieri è stato costretto a sterzare sugli aspetti tecnici: «Si scoprono le carte». Ovvero: «Spiragli di pace per l’Ucraina dalla Casa Bianca».
CORTOCIRCUITO SULL’ABITO
Difficile da mandar giù quando solo pochi giorni prima si è gongolato per il «Trump sconfitto» e invece ora si scopre che il tycoon è il regista della tela diplomatica nella quale sono coinvolti tutti i protagonisti della crisi. Così sull’edizione on line di Repubblica fanno di tutto per minimizzare il ruolo del presidente degli Stati Uniti. L’incontro allo Studio Ovale? «Il Guardian dice molto fumo e poco arrosto». Le sei guerre che il tycoon rivendica di aver fatto cessare? «Quali sono e perché non è vero». Il cambio d’abito di Zelensky (via la felpa militare per giacca e camicia)?
«Lo stilista: il nuovo outfit non era una risposta alle critiche della Casa Bianca». Eppure è stata proprio Repubblica, con la firma di Gianni Riotta, a magnificare a pagina 3 la scelta stilistica di Volodymyr: «In giacca, ma senza cravatta riconquista lo Studio Ovale». Una scelta precisa e voluta, quella di cambiare d’abito, per evitare di offrire pretesti per nuove polemiche alla platea della Casa Bianca: «Nella forma, dalla sartoria al galateo, Zelensky è stato cortese e disponibile».