Vi ricordate quando - eravamo ai primi anni Novanta- gli intellettuali e i dirigenti post-comunisti si riscoprivano improbabili cultori di Popper e von Hayek, nonché appassionati fan della cultura pop americana? Eravamo già nel nuovo millennio quando invece nacque il Partito democratico, sotto le rassicuranti ali protettive del buonismo veltroniano. L’idea, nemmeno troppo nuova, era quella di fondere la cultura post-comunista con quella democristiana di sinistra e dar vita ad una formazione politica “avocazione maggioritaria”. Intanto, presentandosi come il partito europeista e atlantista per eccellenza, il Pd usava la sponda internazionale per accreditarsi, in odio al berlusconismo, come il partito moderato e istituzionale per antonomasia. Operazione riuscita, se è vero che, pur senza vincere mai una elezione, i post-comunisti finivano per stare (come “elemento equilibratore” si diceva) in ogni maggioranza governativa.
Cosa ne sia oggi di tutto questo riformismo sbandierato ma forse poco creduto, nell’anno terzo dell’era di Elly Schlein, è fin troppo facile dirlo: lungi dall’essere un partito rassicurante e credibile, per gli italiani così come per le diplomazie internazionali, quella dei democratici è sempre più una formazione politica radicale, movimentista, a rimorchio delle posizioni demagogiche e populiste dei Cinque Stelle e persino di quelle a trazione comunista e antagonista di Bonelli e Fratoianni (i quali hanno persino rispolverato e imposto in Puglia come candidato un uomo del vecchio secolo come Nichi Vendola). Persino i tentativi di creare una “gamba” moderata, come viene detta nel gergo sinistrese, sembrano abortire già prima di nascere. E come potrebbe essere altrimenti se vedono la luce all’insegna di quel “più tasse progressive” per tutti che non può che spaventare i già tanto vessati ceti produttivi del nostro Paese (la proposta è arrivata ieri l’altro da Ernesto Maria Ruffini).
Per non dire dei cattolici, che si trovano a dover subire scelte sulla morale sessuale e sulle questioni biopolitiche (si pensi all’eutanasia o alla maternità surrogata) francamente indigeribili per chi professa una fede che ha dogmi millenari su cui si è plasmatala civiltà occidentale. E dove è finita quella virtù contabile che era un totem della sinistra post-comunista e che ora si infrange attorno all’accondiscendenza a bonus, sussidi e redditi di cittadinanza di marca pentastellata? Per non dire della tolleranza verso le illegalità degli antagonisti, della sottovalutazione sistematica dei problemi della sicurezza e dell’immigrazione, della collocazione sempre più antioccidentale di un partito che non riesce a dire una parola chiara sul montante antisemitismo dei cortei pro-pal o o sulla necessità di difendere l’Ucraina schierandosi con l’America e l’Europa.
Quel che fa più specie, è proprio l’acquiescenza alla nuova linea politica di chi fino a ieri si presentava come campione di buon senso e riformismo, a cominciare da coloro che avevano patrocinato con Renzi il Jobs Act e che ora hanno accettato senza fiatare che esso fosse messo in discussione con i referendum (che per fortuna sono falliti). Probabilmente il collante del potere, soprattutto per chi lo ha perso e vorrebbe riagguantarlo ad ogni costo, è più forte di ogni ideale e di ogni coerenza intellettuale e politica.