Ammainata - per ora - la bandiera palestinese, causa accordo di pace, Giuseppe Conte ha sterzato sull’economia. Tasse, dazi, caro-bollette, crollo della produzione industriale. Ieri, sui social, ha scritto un post tutto dedicato a questo tema. E ha proposto una «terapia d’urto che passa per un drastico taglio delle tasse e il ripristino di transizione 4.0, eliminando inutili scartoffie e burocrazia per le imprese».
Da dove prendere i soldi? Da armi, extraprofitti delle banche, «tasse sui giganti del web». E con una citazione forse involontaria (era stato lo slogan di Walter Veltroni alle elezioni del 2008) ha concluso: «Si può fare». Oltre al post ha pubblicato anche un video dove si vede lui che ascolta, preoccupato, le difficoltà di alcuni imprenditori toscani (si vota nel weekend).
E così, da leader delle piazze pacifiste, tra studenti e collettivi, ora è tornato nel ruolo più suo, quello da cui, del resto, è partito: l’uomo di governo che sa destreggiarsi con numeri e bilanci, che parla agli imprenditori, ai produttori. Meno movimentismo, più pochette. La sterzata di Conte non è passata inosservata. Soprattutto dalle parti del Pd dove, diversamente da quanto si dice pubblicamente, c’è molta diffidenza nei confronti del leader del M5S. Perché è vero che il Pd ha giurato eterna fedeltà all’alleato, ma questo non significa avere il prosciutto sugli occhi. E così attorno alla nuova veste di Conte fioccano domande e sospetti.
Uno su tutti: non sarà che Conte si sta già preparando alle primarie di coalizione, dove si proporrà come il più adatto per governare, il solo capace di essere credibile a Palazzo Chigi (del resto, dirà, la storia lo dimostra), mica come quella simpatica “gruppettara” di Elly? Dalla sua può dire di aver guidato due governi, una storia radicata nella memoria degli italiani, anche perché ha coinciso con uno dei momenti più drammatici della storia repubblicana.
Parallelamente a questo repentino aggiustamento del tiro, dalle parti del campo di largo si nota con sempre maggior fastidio la riluttanza con cui Conte continua a gestire i rapporti con gli altri leader. Questa tornata di elezioni regionali passerà alla storia più ancora che per il risultato, per il confronto desolante tra i palchi dei comizi finali del centrodestra (sempre con Meloni, Salvini, Tajani) e quelli divisi, piccoli e solitari del centrosinistra (Schlein e il candidato, Conte e il candidato, Bonelli e Fratoianni e il candidato). E questo, si dice off the records, è accaduto solo e unicamente per scelta di Conte. Perché Schlein avrebbe felicemente fatto iniziative insieme. Per non parlare di Bonelli e Fratoianni. Ma Conte si è sempre rifiutato. E in Toscana, dove si vota domani e dopodomani, addirittura non voleva nemmeno andare a incontrare il candidato, l’uscente Giani. Solo all’ultimo si è combinato un incontro, ieri, a Scandicci. Ma senza altri leader nell’inquadratura. Così come ha sempre rifiutato tavoli programmatici anche su temi singoli.
Il fatto è che Conte è convinto che il M5S perda consenso ogni volta che si avvicina al Pd. Il problema è che così facendo, dicono nel Pd, “rende meno credibile la coalizione”. Un dilemma che prima o poi dovrà essere sciolto.