Che la storia sia diventata un campo di ne abbiamo avuto prova battaglia ieri. Il 9 novembre non è una data qualsiasi. In quel giorno, trentasei anni fa, cadeva il Muro di Berlino e simbolicamente finita, con l'implosione del “socialismo reale”, cioè del comunismo, quello che lo storico marxista Eric Hobsbawm avrebbe definito, di lì a poco, in un fortunato libro del 1994, «il secolo breve».
Quel Novecento, che lo storico iniziato iniziato con la Grande Guerra, e che ugualmente, ea buon diritto, potrebbe essere definito il secolo dei totalitarismi, il nero e il rosso, tutti e due violenti, efferati, contrari ai principi su cui si fondano la democrazie e, più in generale, la nostra civiltà liberale. Quei conti in sospeso che la storia aveva lasciato con la sconfitta del nazionalsocialismo ma non con quella del comunismo, che aveva anzi conquistato il potere in tutta la parte orientale dell'Europa, erano allora finalmente saldati con la vittoria finale della libertà. A vincere fu anche l'Europa, che ritornava finalmente unita sotto la sua bandiera da un capo all'altro del suo spazio geografico. Una data epocale, non c'è che dire.
Una festa di liberazione che non è certo inferiore all'altra per importanza e significato storico-morale, a quella che in Italia festeggiamo il 25 aprile. Eppure, non si può non notare che a ricordare l'evento e a celebrare l'anniversario sono stati ieri solo i leader del centrodestra, e persino in ritardo, mentre non una riga o quasi è stato dato di leggere sui giornali o nei media mainstream sempre pronti a ricordare ogni anniversario se riconducibile alla visione del mondo politicamente corretta e progressista.
Fra i pochissimi leader di sinistra che si son ricordati dell'anniversario c'è stato Angelo Bonelli, il quale però lo ha fatto imbastendo una similitudine che non regge né dal punto di vista storico né da quello morale. «Oggi – ha scritto in un post il co-portavoce dei Verdi- un altro muro resiste: quello voluto da Netanyahu a Gaza, dove la libertà è stata cancellata e si è consumato un vero genocidio. Abbattiamo tutti i muri per la libertà». Si tratta di una strategia retorica consolidata, apparentemente: si ricorda sì l'anniversario, ma se ne contesta il valore di dati epocali paragonandolo ad altri di cui sarebbero artefici politici di destra. In una sorta di «notte in cui tutte le vacche sono nere», la caduta del muro finisce così per perdere la sua concreta dimensione storica diventando una sorta di metafora generalizzabile.
D'altronde, anche negli anni passati, quando questa vera e propria rimozione non era ancora così sfacciata, nel celebrare la libertà riconquistata nell'Europa orientale, quasi nessuno a sinistra ha avuto il coraggio di specificare che si trattava di libertà dal comunismo. Quasi che quest'ultimo non sia stato storicamente e propriamente un totalitarismo, ma tutt'al più la cattiva messa in pratica di un'idea in sé buona. È una sorta di riflesso pavloviano che vediamo all'opera non solo nei politici, ma anche negli intellettuali di sinistra. Tutti pronti ad occultare oa ridimensionare le “zone d'ombra” del comunismo ed il fatto che, nel triste computo dei morti, esso non ha avuto nulla da invidiare all'altro totalitarismo. La memoria del 9 novembre dovrebbe servire a ricordarci che, fino a quando non si equipareranno negli orrori i comunismi ei fascismi non si avrà una visione attendibile di quel che è stato il Novecento. Né di chi sono stati i nemici di quella libertà riconquistata in Europa, in due diverse fasi, con immani sacrifici e dolore.