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Massimo Giannini, la sinistra divide gli intellettuali di destra in buoni e cattivi

Una vecchia strategia: se non puoi sconfiggere il nemico perché è più forte, prova a dividerlo e a delegittimarlo
di Corrado Ocone domenica 28 dicembre 2025

Massimo Giannini

3' di lettura

È una vecchia strategia: se non puoi sconfiggere il nemico perché è più forte dite, o perché non hai idee spendibili, prova a dividerlo e a delegittimarlo. Dopo l’articolo con cui Marcello Veneziani esprimeva un giudizio poco generoso su quanto fatto finora dalla destra, e soprattutto dopo le prese di posizione e gli interventi di altri intellettuali ascrivibili a quell’area politico-culturale, a sinistra si ripropone in questi giorni lo stilema del divide et impera, seppure con una novità: si prova a dividere il nemico nel campo culturale e non in quello strettamente politico.

Un esempio è l’editoriale con cui Massimo Giannini ieri su Repubblica ha diviso gli intellettuali di destra in “buoni” e cattivi”, a seconda che si siano schierati nella polemica che è seguita all’articolo di Veneziani con lui o contro di lui. Ecco allora che, fra i primi, troviamo Franco Cardini, Giordano Bruno Guerri e persino un Mario Giordano che, dopo tanti attacchi ricevuti da sinistra, viene ora definito uno “spirito libero”.

Ed ecco che fra i “cattivi” viene annoverato “persino” Giuliano Ferrara che ha parlato a proposito di Veneziani di “nannimorettismo”. L’impresa di dividere gli intellettuali di destra è a dir poco vana e per un semplice motivo: la destra culturale è già da sempre divisa per conto suo. Ognuno degli intellettuali di destra ha sue idee, opinioni, sensibilità, e non ama intrupparsi e confondersi con altri. Questo esibito e vissuto pluralismo è però, a ben vedere, un merito e non un limite, ciò che veramente distingue la destra culturale dalla sua controparte.

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La destra non può esercitare una egemonia culturale come quella che ha esercitato la sinistra per tanti anni perché l’intellettuale che fa riferimento a questa parte politica ragiona con la propria testa, separa la cultura dalla politica, non sacrifica le proprie idee per fare gruppo e seguire una dottrina ufficiale stabilita da un partito o da una qualsiasi altra agenzia politico-culturale di riferimento. Il collante è proprio l’idea che in ambito culturale non debba esserci egemonia di sorta, che non si sta al governo per sostituire una egemonia all’altra ma per aprire porte e finestre e far respirare un po’ di aria pulita alle asfittiche stanze ove si produce cultura.

Perché senza questa aria fresca, senza pluralismo di visioni del mondo, senza libertà, la cultura semplicemente non è. «Qual è la svolta culturale che segna il cambio d’epoca?», si chiede Giannini. Ma siamo proprio sicuri che una destra al governo in una democrazia debba realizzare una “svolta culturale” e non amministrare bene, favorire cioè l’interesse generale odi tutti e non semplicemente quello di una parte? E siamo sicuri che se la destra avesse fatto questo, imitando le cattive pratiche della sinistra, casomai stilando liste di proscrizione al contrario, cioè escludendo e non includendo, la sinistra non sarebbe insorta al grido del “ritorno al fascismo”. I tempi del Minculpop sono ben lontani per questa destra al governo, forse un po’ meno per certa sinistra intellettuale che vorrebbe continuare a far parlare solo chi è a lei gradito. Che il doppiopesismo sia poi l’abito predominante a sinistra lo dimostra l’accusa rivolta a destra di considerare la Rai e gli altri enti culturali un “poltronificio”, cioè di praticare una prassi che la sinistra ha praticato per decenni. La realtà è ben diversa: quegli enti sono sempre in mano a un’intellettualità di sinistra, spesso tanto chiusa da non tollerare intrusioni nel suo “cerchio magico”. Essa è abituata a far coincidere la “competenza” con l’“appartenenza” (vedi il caso Venezi). Su un punto però Giannini ha ragione: a sinistra «non c’è più il Pci di Berlinguer, che organizzava gli stati generali della cultura convocando intellettuali di ogni ordine e grado».

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A non esserci più è cioè l’egemonia culturale intesa come un rigido sistema che teneva uniti gli intellettuali ad un progetto culturale elaborato in sede politica e che li faceva “organici” al Partito. Ciò che è rimasto è però l’egemonia intesa come semplice occupazione di posti di potere, come ricerca del potere per il potere, fosse pure nel dopo tutto “secondario” (per i canoni odierni) ambito culturale. Ecco che allora se non appartieni al circolo degli amici, se non ti riconosci o sei riconosciuto nel e dal gruppo, sei ancora oggi messo da parte, dimenticato, reso irrilevante. Quanto alla cultura essa è stata sostituita a sinistra da slogan che servono per riconoscersi, non vissuti ma ripetuti pappagallescamente.

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