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Termoablazione oncologica“una metodica da scoprire”

Una terapia che utilizza il calore prodotto da onde elettromagnetiche e che in futuro verrà impiegata in un numero sempre maggiore di casi. Attenzione però: occorre sempre verificarne l’appropriatezza per il singolo paziente
di Maria Rita Montebelli domenica 29 settembre 2019

4' di lettura

Sono finiti i tempi i cui ricevere una diagnosi di cancro equivaleva a ricevere una condanna a morte: l’arsenale delle terapie oncologiche è ormai molto nutrito e gli avanzamenti della ricerca scientifica in questo campo forniscono nuove ed efficaci risposte a un numero sempre maggiore di pazienti. Ad oggi il 50 per cento dei pazienti colpiti da tumore guarisce e per l’altro 50 per cento l’aspettativa di vita e la possibilità di cronicizzare la malattia sono molto aumentate negli ultimi 10 anni. Tuttavia a fronte di questi innegabili avanzamenti i numeri rimangono molto alti: 371 mila casi nel 2019 e solo in Italia. È quindi necessario ragionare in termini di appropriatezza delle terapie e di multidisciplinarietà. Termoablazione, una delle ‘armi’ dell’oncologia moderna. Le tecniche di termoablazione sono basate sullo sviluppo di calore all’interno di una lesione ‘target’, che viene portata a una temperatura superiore a 60 gradi e viene così distrutta. Il calore viene prodotto con onde elettromagnetiche che, attraverso un cavo, raggiungono un’antenna inserita nel tumore generando un’oscillazione delle molecole d’acqua con conseguente produzione di calore. Studi di mercato prevedono un incremento del ricorso alle tecniche ablative nel periodo 2017-2024 stimabile in circa il 10,2 per cento. I motivi sono da ricercare nell’aumento dell’età media e dei tumori correlati e soprattutto sulla comprovata efficacia clinica di tali trattamenti. È infatti un trattamento efficace nei pazienti più fragili – che mal sopporterebbero un intervento chirurgico invasivo – la cui tecnologia è stata recentemente migliorata. Attenzione però, sia il paziente che il tipo di tumore vanno selezionati con cura. Queste procedure risultano molto efficaci se il tumore non è molto esteso e se ci sono poche metastasi. In quanto alle sedi di sviluppo delle neoplasie, può trattarsi sia di tumori primitivi, che secondari dei tessuti parenchimali (fegato, rene, polmone) e delle ossa. Negli ultimi anni è, inoltre, emerso un altro punto di forza della termoablazione, che consiste nella sua capacità di causare un’importante risposta infiammatoria capace di stimolare il sistema immunitario a reagire contro le cellule tumorali ancora presenti nell’area, riducendo, quindi, anche lesioni non trattate. “I benefici di questa tecnica per il paziente oncologico riguardano prevalentemente il fatto che è una metodica meno cruenta della chirurgia tradizionale, più rapida, meno dolorosa, è ripetibile in caso di recidive. Riduce le giornate di degenza e il periodo di malattia, con una conseguenza diminuzione dei costi diretti e indiretti, a vantaggio anche del servizio sanitario nazionale – dichiara il professor Rosario Francesco Grasso, responsabile della radiologia interventistica del policlinico universitario Campus Bio-Medico - I nostri pazienti vengono trattati in sedazione profonda ed in alcuni casi anche in anestesia generale. La degenza è generalmente di 1 o 2 giorni. Eliminando l’anestesia generale, si possono, così, trattare tutti i pazienti altrimenti non eleggibili ad altre terapie per l’età avanzata o per la presenza di comorbilità”. Il nostro Paese, vanta strutture all’avanguardia nell’eseguire procedure di termoablazione. La scelta del centro assume, in questo contesto, un ruolo fondamentale, perché garantisce al paziente molteplici opzioni di trattamento e di cura. Il policlinico universitario Campus Bio-Medico è diventato un vero e proprio polo di riferimento per il centro-sud e si avvale di un tumor-board in grado di garantire il miglior percorso per il singolo paziente con tutte le opzioni garantite dalla termoablazione: cura, sollievo dal dolore, aumento dell’efficacia di un trattamento oncologico altro. Si tratta di una terapia mirata che, nonostante la sua mininvasività, deve essere praticata in un centro ospedaliero in grado di poter garantire tecnologie avanzate, alti livelli di esperienza, un team multidisciplinare, e la possibilità di effettuare follow up nel tempo, per far sì che il paziente sia selezionato accuratamente, in modo da poter trarre il miglior beneficio da questo tipo di trattamento. “La termoablazione, a parte casi specifici come l’epatocarcinoma primario – dichiara Bruno Vincenzi, professore associato di oncologia presso il policlinico universitario Campus Bio-Medico - non è sostitutiva, ma complementare ai trattamenti medici, ed ha indicazioni ben precise, come il volume, il numero e la localizzazione delle lesioni tumorali. Per questo motivo è fondamentale che il paziente sia preso in carico da un team multidisciplinare. L’importante è, infatti, definire l’appropriatezza terapeutica: capire, cioè, qual è il paziente giusto e il momento giusto per eseguire questa procedura”. “La scelta della miglior opzione terapeutica per affrontare la malattia, nel nostro Centro viene stabilita da un tumor board, costituito da un oncologo, un chirurgo, un radioterapista e un radiologo interventista, in funzione del tipo di tumore, della sua localizzazione ed estensione e delle condizioni generali di salute del paziente – continua Grasso – L’obiettivo è quello di controllare la malattia e ridurre la sintomatologia associata. Il focus resta il miglioramento della qualità di vita del paziente, insieme ad un incremento dell’aspettativa di vita e, dunque, a una riduzione della mortalità. A seconda della tipologia del paziente - conclude il professore – possiamo porci differenti finalità. Una è sicuramente quella ‘curativa’, quando si riesce ad eliminare la lesione (generalmente unica e sola), un’altra è denominata ‘citoriduttiva’, eseguita su una massa tumorale importante, sia in una singola lesione, sia in lesioni multiple, al fine di agevolare l’efficacia della terapia farmacologica. E poi c’è quella ‘palliativa’, quando si vuole migliorare la sintomatologia della malattia e, di conseguenza, la qualità di vita del paziente. Non dimentichiamo, infatti, che il 20 per cento dei pazienti con dolore oncologico ha un problema irrisolto e che anche nei centri di radioterapia a più elevata tecnologia la percentuale di pazienti che non risponde alla terapia radiante a scopo antalgico è sempre del 20 per cento”. (MATILDE SCUDERI)

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