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Latte al supermercato, una bottiglia su due contiene materia prima straniera

di Andrea Tempestini domenica 20 agosto 2017

3' di lettura

Sono passati esattamente quattro mesi da quando, era il 19 aprile, il decreto sull’origine obbligatoria per il latte e i derivati è entrato in vigore. L’indicazione era già obbligatoria per l’alimento bianco fresco. Dalla scorsa primavera il vincolo è scattato pure per quello a lunga conservazione e trasformato. Cos’è successo sui banconi dei supermercati? È davvero semplice per i consumatori distinguere i prodotti 100% italiani da quelli ottenuti a partire da materia prima straniera? E cosa accade con i prezzi? Per rispondere a queste domande ho passato al pettine i punti vendita di Voghera e dintorni e ho acquistato 22 confezioni diverse. Tutte quelle del latte Uht intero a lunga conservazione presenti nelle insegne che ho visitato. Vale a dire Iper la Grande i, Esselunga, Galassia, Coop e Carrefour. L’intervallo dei prezzi che ho rilevato è molto ampio e va dai 55 centesimi del latte Rottaler, austriaco, all’euro e 19 cent di Sterilgarda e Consilia (marca privata del Gulliver). I prodotti 100% Italia costano decisamente di più. A conferma che la materia prima nazionale incide in maniera importante sul prezzo finale di vendita. È tutto da verificare se questa differenza si sia trasferita anche sugli allevatori, che lamentano tuttora i prezzi bassi imposti dall’industria di trasformazione. Crescono le quotazioni del latte spot. Molto meno quelle delle forniture regolate da contratti siglati dai produttori. L’origine è presente su tutte le marche di latte italiano. Mentre è assente su quello importato. Ma questo riflette un aspetto non trascurabile del decreto che vale esclusivamente sul territorio nazionale. E non potrebbe essere diversamente. Le latterie degli altri Paesi europei si avvalgono delle norme contenute nel Codice doganale comunitario, in forza del quale è possibile non dichiarare praticamente nulla. Non a caso sono totalmente opachi, quanto all’origine, i prodotti Madeta (Repubblica Ceca), Biancolatte e Rottaler, entrambi austriaci. La storia si ripete anche per lo stabilimento di produzione. Assente o quasi sui prodotti stranieri. L’Unione europea ha abolito l’obbligo di scriverlo in etichetta tre anni or sono, ma il governo italiano ha deciso di ripristinarlo, anche se la partita non può dirsi chiusa (si veda in proposito l’approfondimento qui a fianco). La regola aurea che possono seguire i consumatori che cerchino l’alimento bianco italiano al 100% è la solita: le industrie lattiere che si approvvigionano esclusivamente nelle nostre stalle lo fanno sapere con grande evidenza sulle confezioni, con diciture leggibili a distanza e utilizzando a piene mani bandierine e nastrini tricolori. Qualora queste indicazioni fossero assenti il latte è importato. In questi ultimi casi, poi, l’origine, quasi sempre indicata come «Paesi Ue» è scritta in piccolo e mai nel medesimo campo visivo della denominazione di vendita. Spesso si confonde nel retro della confezione con altre scritte. Come se il produttore non ci tenesse a far sapere da dove arrivi quel che ha confezionato. Come sempre i marchi italiani non significano assolutamente che il prodotto sia nazionale. Valga per tutti l’esempio del latte Parmalat, azienda storica rilevata dal gruppo francese Lactalis, che dichiara «Paese di mungitura: latte di Paesi Ue». Tutte le marche dei distributori, quelle che una volta venivano definite private label, utilizzano materia prima italiana. Esselunga, Iper, Gulliver, Selex e Carrefour fanno sapere che il prodotto è 100% Italia. Inclusa la Coop che fino a poco tempo fa per il latte a marchio proprio, si serviva di alimento bianco austriaco. A meritare il punteggio più alto sono i seguenti latti: Granarolo, Voi, Consilia, Coop e Carrefour. Oltre al latte vaccino, le medesime regole valgono anche per quello di capra, come stabilisce il decreto entrato in vigore quattro mesi or sono. di Attilio Barbieri

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