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Biancaneve in versione woke è un flop planetario

Il remake politicamente corretto della Disney non convince il pubblico: incassi disastrosi
di Giovanni Sallusti martedì 25 marzo 2025

3' di lettura

Alla resa dei conti anche il woke, questa forma di socialismo 5.0 patinato e algoritimico, si è infranto contro lo scoglio che smentì tutti i socialismi tetri e burocratici del ’900. Ovvero, contro quella che Friedrich Von Hayek chiamava la “presunzione fatale”: l’idea di ridisegnare la società, la cultura, la vita stessa degli uomini a partire da un teorema ideologico, a cui la realtà dovrebbe adeguarsi. No, la realtà prima o poi si ribella, spesso tramite quella sua incarnazione particolarmente refrattaria a farsi dirigere detta mercato. Sentenza del mercato di queste ore: la Biancaneve politicamente corretta, ritagliata ad uso e consumo delle paturnie “inclusiviste” contemporanee, è un flop clamoroso.

Il remake con attori umani del superclassico del 1937 chiude la sua prima settimana con 43 milioni di dollari incassati negli Usa e altri 44 milioni dal mercato estero, per un totale globale di 87 milioni. Trattasi tecnicamente di noccioline rispetto al budget pachidermico del film: 270 milioni di dollari per le riprese e altri 100 per il marketing. Per intenderci, la Disney e gli esercenti si aspettavano di chiudere questo primo giro di boa con almeno 100 milioni incassati. In proiezione, una débâcle. Al netto di (inverosimili) colpi di coda, possiamo mettere a referto che i cervelloni della Disney hanno sovra-stimato il target di riferimento. L’intera operazione, infatti, è stata allestita come un atto rivendicativo, come una sorta di manifesto in celluloide del wokismo (probabilmente confortati dai sondaggi che davano Kamala in avvicinamento trionfale alla Casa Bianca, e i suoi inesistenti elettori in avvicinamento trionfale alle sale cinematografiche).

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Anzitutto, la sceneggiatura affidata a Greta Gerwig, «l’unica», come annunciarono entusiaste le agenzie di ambo le sponde dell’Atlantico «che è stata in grado di raccontare in modo credibile Piccole Donne femministe e la prima Barbie in crisi di identità». Poi, la scelta cromaticamente corretta: la Biancaneve ispanica dalla pelle ambrata, specificamente colombiana, incarnata da Rachel Zegler, con tanto di riscrittura involontariamente comica delle origini del nome (la protagonista si chiamerebbe così perché da bambina scampò a una tormenta di neve, puro stalinismo pop). Ma il cortocircuito concettuale forse più spettacolare è andato in scena sui Sette Nani: ossessionati dal rischio di turbare la presunta ipersensibilità di presunte minoranze (quella che Robert Hughes chiamava «la cultura del piagnisteo») i geni della Disney hanno deciso di abolirli in quanto esseri umani, di reinventarli come immagini animate in 3D e (ri)battezzarli «creature magiche».

Risultato: molti artisti affetti da nanismo si sono giustamente risentiti, come l’attore e performer Choon Tan: «Personalmente mi sento discriminato perché a tutti dovrebbero essere date pari opportunità». L’ossessione ideologica anti-discriminatoria produce discriminazioni effettive nella realtà, e arriva a rimuovere anche la figura tradizionale del principe (che secondo la protagonista Zegler «faceva stalking», e non aveva l’aria di avere assunto sostanze), sostituito da una sorta di Robin Hood che ruba e redistribuisce la ricchezza della Regina cattiva. Tutto questo coacervo di turbe politically correctmesse su pellicola è svanito di fronte alla spontaneità del mercato, che poi vuol dire dello spettatore in carne, ossa e cervello, il quale paga (o non paga) il biglietto. È una disfatta misurata a suon di dollari (mancanti), e Oltreoceano equivale a una sentenza definitiva. La realtà è tornata.

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