Peppe Vessicchio ha un piccolo cruccio: taluni lo chiamano Beppe ma lui è Peppe, con la P. Per un perfezionista delle sette note come lui non è un dettaglio, anche se ci ride sopra. L’avventura musicale di questo direttore d’orchestra diventato personaggio durante il Festival di Sanremo, anche per la sua barba rinascimentale, merita rispetto viste le medaglie appuntite sulla sua bacchetta: oltre 30 i Festival ai quali ha partecipato, centinaia le canzoni musicate e arrangiate, decine le direzioni. Vessicchio è un pentagramma vivente.
Maestro, una curiosità: ci spiega quella barba? È un vezzo?
«Ma no. Ce l’ho da anni e non mi vedrei senza. Vero che sono diventato quasi un personaggio in tv grazie alla barba, ma la cosa mi fa ridere».
Festival di Sanremo: se lo citiamo, cosa le viene in mente?
«La felicità. Prima delle canzoni l’atmosfera che si respira sempre attorno all’Ariston, gli incontri, le conoscenze, le cene notturne fra amici e le risate».
Lei ne ha frequentati veramente tanti. Il primo?
«Nel 1986. Fu un’esperienza memorabile perché non c’era ancora l’orchestra dal vivo e i cantanti si esibivano su base registrate. Arrangiai Canzone triste di un giovane che si chiamava Adelmo Fornaciari. Ovvero Zucchero. Ero contento perché vedevo già Adelmo come un sognatore, un artista che voleva abbracciare il mondo con la propria musica. Oggi i giovani sono molto più pragmatici, lo impone il mercato. Sognano meno».
Oggi Sanremo è diventato il sinonimo di autotune.
«Un congegno che permette a chi non ha le qualità vocali di dire la sua, semplificando le cose. Purtroppo, in egual misura, dismette un possibile talento del canto. Livella tutto, come diceva Totò. Rischia di tribalizzare un risultato».
Sanremo si può considerare ancora il Festival della canzone italiana?
«No, affatto. Negli ultimi anni lo è dei cantanti, della loro scenicità, della loro faccia. Un tempo si sceglievano le canzoni e poi le si abbinavano all’interprete, Oggi, il contrario».
Quindi vince solo il cantante?
«È il protagonista. Addirittura al momento della scelta dei big in gara annunciano il nome del cantante, il titolo del brano viene dopo».
Il futuro del Festival?
«Non lo vedo trasmigrare su un’altra rete che non sia la Rai. Essendo soprattutto un programma televisivo, un meccanismo che genera pubblicità e punta all’auditel, l’ente di stato farà di tutto per tenerselo».
Sul piano musicale?
«Beh, Carlo Conti ha fatto ascolti migliori di quelli di Amadeus. Avevo dubbi sui 29 cantanti in gara ma mi rendo conto che conta il cast. Un tempo Sanremo lanciava nuovi artisti, ora si appoggia su quelli che vanno forte sul web. Vive sudi loro».
Tutto sbagliato, tutto da rifare?
«No. Quest’anno un segnale forte è venuto da Lucio Corsi, partito da piccoli club è arrivato sul podio all’Ariston meritandosi poi l’EuroVision».
Tra i giovani chi l’ha conquistata ultimamente?
«Difficile fare un nome. Negli ultimi anni ho capito che Ultimo piace perché è un fenomeno sociale prima che musicale. I giovani si sentono rappresentati dai suoi testi e da lui come persona».
Digressione sul festival di Castrocaro: la Rai riuscirà a rilanciarlo?
«Sono nella giuria di qualità ed è la prima cosa che mi auguro. Un tempo il percorso era quello: da Castrocaro a Sanremo. E magari oltre. Basta pensare a Laura Pausini».
I momenti più eccitanti dei suoi Sanremo?
«Attimi, dettagli di anni fa. Momenti indimenticabili furono la volta che ascoltai Whitney Houston alle prove pomeridiane, una di quelle cose che colpiscono al cuore noi musicisti. Oppure quando Ray Charles, dopo la sua interpretazione si sedette su una poltroncina per ascoltare con attenzione gli altri colleghi che neppure conosceva».
L’attimo più divertente?
«Nel 1996 ero al seguito di Elio e le Storie Tese che proponevano La terra dei cachi. Decisero, per una delle loro meravigliose follie, di velocizzare il brano entro il minuto. Fu lì che capii il genio di Pippo Baudo che presentava il Festival. Ascoltò il brano e, invece di bocciare quello che poteva sembrare uno strafalcione, non bocciò l’idea, intuì subito la follia vincente degli Elii».
Fu l’inizio della loro felice storia musicale, vero?
«Sì. Ricordo che la notte della finale stavo mangiando con loro in un ristorante di Sanremo in attesa del verdetto. La canzone era destinata a piazzarsi fra le ultime, invece arrivò a sorpresa seconda. Elio salì in piedi sul tavolo del ristorante urlando: vergogna, il Festival è truccato! Dovevamo arrivare ultimi e siamo secondi! Che genio comico e paradossale è».
Il momento più romantico?
«Anno 1990, il Festival uscì eccezionalmente dall’Ariston e fu organizzato al Palafiori. Ero il direttore d’orchestra di Mia Martini e di Mango».
Un ricordo spiacevole?
«Andrea Bocelli presentò nel 1995 Con te partirò. Aveva ambizioni di vittoria ma la canzone si piazzò al quarto posto. Sabato notte, dopo il verdetto finale, Andrea era così dispiaciuto e soffrii nel vederlo così. Un mese dopo quella canzone era al vertice di molte classifiche, anche internazionali».
Il presentatore ideale per il Festival?
«Ho un ricordo troppo vivo di Baudo. Non per nostalgia ma perché Pippo è un musicista, uno che durante le prove poteva anche stravolgerti un brano perché lo ritiene poco idoneo. Ci fece cambiare tutto il finale di Con te partirò. E aveva ragione lui».
Il Sanremo più divertente?
«Quello di Raimondo Vianello. Nell’edizione 1998 da lui presentata ero il direttore d’orchestra di molti brani in gara. All’ennesimo, quando Vianello doveva pronunciare la fatidica frase “dirige l’orchestra il maestro Peppe Vessicchio” si interruppe, mi fissò e disse: ma come, ancora lei? Eh basta...».
Peppe, lei non ci può tenere all’oscuro del suo passato da cabarettista, però.
«All’inizio, quando avevo ancora la barba nera, facevo parte del gruppo dei Tre tre. Ma ero l’addetto alle musiche. Poi mi diedi alle sette note, per fortuna».
Ha persino girato un film comico, non lo neghi.
«Vabbè, feci una particina in un film che si chiamava Giggi il bullo. Facevo l’autista di un furgone delle pompe funebri. Ma dobbiamo proprio rivangare queste cose?».
Lei c’è sempre stato a Sanremo ma pochi sanno che era nel cast musicale di Amici, agli inizi.
«Un’esperienza fantastica, Maria de Filippi è un genio della televisione. Venni chiamato per giudicare e capire se, fra i giovani aspiranti cantanti, ce ne fosse uno bravo. La selezione fu spietata, solo l’8% degli esaminati andavano avanti. Mai creare delle false illusioni, mi dicevo».
Un rimpianto?
«Non aver mai lavorato con Lucio Battisti. Il lavoro di ricerca che fece dopo aver interrotto la sua storica collaborazione con Mogol è stata una delle cose più innovative che ricordi. Dischi come E già o Don Giovanni sono attualissimi».
Una canzone che la fa ancora sognare?
«Devo dire che la collaborazione con Gino Paoli per Ti lascio una canzone fu un tuffo al cuore. Gino mi disse: ho scritto questo brano come un messaggio d’amore per quello che c’è stato anni fa tra me e Ornella. Lessi le parole e quasi mi venne da piangere. Questo è il grande potere della musica».