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Lo sport come antidoto al logorio ideologico

C'è un segmento dell’umano che spariglia gli intruppamenti ideologici, le paure del presente e anche le paturnie del presentismo. E questa zona franca si chiama sport
di Giovanni Sallusti martedì 9 settembre 2025

3' di lettura

Poi, in un momento per statuto di sospensione, una domenica d’inizio settembre persino senza campionato di calcio, la rivelazione. Che corrisponde a un’eco profonda dal nostro subconscio culturale, una certezza che ci rimbomba dall’antica Grecia, dalle guerre congelate per la tregua olimpica, dall’ideale tutto occidentale della “kalokagathìa”, quella fusione inestricabile di armonia corporea e valore morale che, presa alla lettera, fa rabbrividire gli intossicati odierni del politicamente corretto. In ogni caso, la sentenza domenicale è agli atti (anche degli ascolti televisivi): c’è un segmento dell’umano che spariglia gli intruppamenti ideologici, le paure del presente e anche le paturnie del presentismo, questa dittatura dell’attimo che diventa ansia da prestazione del clic. E questa zona franca si chiama sport. Impresa sportiva, gesta sportiva, gara che è già epica mentre non ha ancora esaurito la cronaca. Anche se culmina in una sconfitta non negoziabile come quella di Sinner nella finale dello Us Open contro il martello-Alcaraz. Forse, a maggior ragione in quel caso. La splendente vittoria a Wimbledon, a parti invertite, aveva anche partorito un “sinnerismo” di maniera, un caso passeggero di conformismo di massa. L’altro ieri invece, a ogni rantolo di Jannik a inseguire la palla troppo potente, o troppo tagliata, dell’altro, era ciascuno di noi che soffriva con lui, era “quel singolo” che rappresenta il dramma di ogni uomo, come voleva Sören Kierkegaard, a specchiarsi nel dramma sportivo del nostro.

Poi, certo, c’è anche l’epica della vittoria. C’è il tie-break ultraterreno delle ragazze della pallavolo, un profluvio di muri e schiacciate che diventano pennellate espressioniste, note già da sempre anche a chi di volley capisce quanto di astrofisica. Il mainstream ha provato a ridurle a bozzetto woke, questo pugno di donne titaniche, Enogu-Sylla e le altre come testimonial della società multietnica, ma sono ragli (pseudo)intellettuali, non è per questo che le abbiamo guardate tutti, non è per questo che eravamo tutti in trance insieme al ct-filosofo Julio Velasco. Confusamente, rincorrevamo quella sintesi tra la purezza del gesto individuale e il brivido dell’adrenalina collettiva in cui consiste forse l’essenza dello sport. E che sì, per una domenica salvifica ha messo tra parentesi il disordine globale e le polemiche domestiche, le guerre commerciali e le guerre guerreggiate, la bruttura della cronaca e le convulsioni della storia. È la stessa sintesi che abbiamo cercato nell’ItalBasket perdente, nell’ultimo ballo frustrato di Gallinari, nell’addio convulso di mister Pozzecco, tutti piegati da quella macchina per canestri che oggi si chiama Luka Doncic.

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La kalokagathìa riluccica anche nella caduta, è sport, mica politica. Abbiamo infine assistito alla liturgia laica del Gran Premio di Monza, che è sempre tale, anche nella stagione del rimpianto, quella della Ferrari che poteva essere e non è. Ma l’abbiamo officiata comunque, Monza una volta all’anno diventa categoria dello spirito e la Brianza motore metafisico, non solo economico. È il trascinamento di una domenica (felicemente) anomala, in cui siamo stati appesi a rovesci temerari, bagher controintuivi, bombe da tre punti e giri velocissimi (Verstappen che incenerisce il record di un certo Schumacher). Una condizione emotiva condivisa e forse irripetibile, che per una volta dà torto postumo al grande pensatore José Ortega Y Gasset: «Mi trovo solo tra i miei contemporanei nell'affermare che la forma superiore dell'esistenza umana è proprio lo sport». No, perlomeno domenica eravamo in parecchi.

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