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I libri di Russia 2018, il Giappone diviso tra l'harakiri e "Holly e Benji"

di Davide Locano domenica 15 luglio 2018

2' di lettura

L’harakiri, o meglio il seppuku, compiuto dal Giappone contro il Belgio ha origini culturali e letterarie, che derivano dallo spirito di un Paese dedito al sacrificio, spesso in maniera autodistruttiva, e incapace di fare analisi delle proprie colpe e di prendersene le responsabilità. Almeno è quello che pensa lo scrittore giapponese premio Nobel Oe Kenzaburo, sempre critico verso l’immagine di un Paese consacrato al culto di sé e del proprio glorioso passato, alla nostalgia di un tempo eroico perduto, ma restio ad adottare una morale vitalistica, votata al successo. Quasi che la gloria dei Vinti sia eticamente superiore alla concretezza dei Vincitori.  Di questo dissidio risente anche la storia del calcio, raccontata da Kenzaburo nel suo La partita di calcio del primo anno dell’era Man’en, tradotto in Italia come Il grido silenzioso: nella vicenda dei due fratelli Mitsu e Taka, ambientata nel secondo Dopoguerra, affiora il contrasto tra l’anima tradizionalista del Giappone e la sua apertura al mondo e alla modernità, avviata un secolo prima con la fine dell’isolamento e l’adozione di istituzioni e costumi occidentali. Anche il calcio è figlio di questa ambiguità: se esso risente di un’etica della lealtà e dell’onore, di una logica comunitaria e di una dedizione alla patria tipiche di questo Paese, esso è comunque un prodotto commerciale, importato. Dal punto di vista di Mitsu, pensatore disincantato, esso fatica ad armonizzarsi con l’atteggiamento poco incline all’azione dei giapponesi; secondo Taka, piuttosto, esso deve nutrirsi dell’aggressività e della mentalità volta al profitto propria degli occidentali, rinunciando alla tradizionale mistica samurai o al mito del bel gesto, fine a se stesso. Da tale conflitto si esce o difendendo a oltranza la propria identità patria, e facendo catenaccio sui sacri valori della Tradizione; o votandosi agli stranieri, adottando il loro modo di essere e di giocare e divenendo «mero riflesso della loro cultura»; oppure cercando un compromesso tra le due anime, mescolando estetica e pragmatismo, e accettando il carattere ibrido di un Paese «lacerato da ambiguità», come Kenzaburo disse al momento di ricevere il Nobel. Quest’equilibrio impossibile forse però lo si può trovare solo nella fantasia, come nel cartoon Capitan Tsubasa, meglio noto come Holly e Benji, in cui la formazione nipponica vince un Mondiale grazie a giocatori dall’aspetto occidentale che indossano fieramente i colori del Sol Levante.  di Gianluca Beneziani

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