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Andrea Agnelli, le amnesie: ecco quello che non ha detto

di Fabrizio Biasin mercoledì 28 dicembre 2022

3' di lettura

Dell'ultimo discorso di Andrea Angelli, quello andato in scena ieri, stupiscono alcune cose. Altre decisamente meno. Vi sorprende che il patron più vincente degli ultimi dieci annidi calcio italiano dica «io sono stato bravo, io ho fatto bene, io sono io e voi ecc ecc»? Suvvia, non siate ingenui: Andrea Agnelli rivendica vittorie e colpi di genio, evita di entrare nel merito delle accuse a lui rivolte e, in definitiva, si comporta come si sarebbe comportato qualunque collega al suo posto. 

Nel calcio funziona così da quando rotola il pallone, avete per caso sentito qualcuno dire «sì, beh, in effetti ho anche commesso qualche errore...». Mai. E mai accadrà. Questa cosa chiarisce alla perfezione perché il nostro calcio sia ridotto a una specie di puntata del Bagaglino, ma qui stiamo parlando di Agnelli e non è questo il punto.

Il punto è che Andrea Agnelli nel giorno della sua ultima assemblea degli azionisti sceglie legittimamente di elencare i meriti, anche quelli recenti (dal suo punto di vista le dimissioni sono semplicemente un atto d'amore nei confronti del club), ma si dimentica di tutto il resto, ovvero del perché si sia arrivati a questo punto, del perché il club con il più ampio margine di vantaggio acquisto nei confronti degli avversari sia finito a dover escogitare stratagemmi contabili in stile Totò e Peppino per riuscire a stare a galla.

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DALLE INTUIZIONI AGLI ERRORI
Badate bene, qui non trattiamo la questione giudiziaria, su quella ci faranno sapere coloro a cui compete l'analisi dei conti, dei fatti e delle responsabilità; qui banalmente ci chiediamo come sia possibile essere passati dalle intuizioni del tipo che tu, avversario, provavi un'invidia bestiale («ma perché loro prendono Barzagli a 3 mila lire e noi Salcazzo a 50 milioni?»), a errori marchiani e persino mal celati, roba che anche Fragolina2323 su twitter a un bel punto si è ritrovato a scrivere «hanno venduto Piripicchio a 30 milioni. Qualcosa non torna».

Ecco, nella - ribadiamo, comprensibile - autodifesa di ieri, Andrea Agnelli avrebbe guadagnato mille punti se solo avesse detto «Signori, a un bel punto ho fatto il passo più lungo della gamba», che non significa ammettere responsabilità di carattere giudiziario, ma riconoscere che aver deviato dalla strada illuminata (quella del risparmio e delle idee come caposaldo) per inseguire l'Euro-vittoria a tutti i costi, è stato un vero e proprio peccato mortale, l'inizio della fine, Pinocchio che segue Lucignolo nel Paese dei Balocchi.
Per intenderci, la Juve le finali di Champions le ha giocate spingendo sul pedale dell'umiltà e della buona gestione piuttosto che su quello dell'arroganza, del «vincere è l'unica cosa che conta», dei soldi gettati dalla finestra («Se Fabio - Paratici ndr - si svegliava la mattina e aveva mal di testa o beveva un bicchiere poteva firmare 20 milioni senza dirlo a nessuno. Era pericoloso», parole - intercettate - del ds Federico Cherubini).

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IL COLPO DI GRAZIA
E terminiamo. Il vero colpo di grazia alla - va detto- fortunatissima gestione Andrea Agnelli non l'ha dato la pandemia come troppo spesso si vuol far credere al Bar Sport («colpa del virus...»), quella al limite ha complicato una situazione che era già compromessa e, semmai, il virus si trasformato in un alibi. La mazzata finale l'ha data l'idea di poter combattere i giganti d'Europa a colpi di spese sconsiderate e scelte improvvisate, il tutto sommato alla volontà di imporre al sistema-calcio una strampalata rivoluzione-gestionale (leggi Superlega) con alle spalle un supporto quello del calcio italiano - che al momento ha la stessa credibilità di una puntata dei Teletubbies.

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