La Coppa Italia avrebbe ammorbidito la sentenza, ma non l’avrebbe di certo ribaltata. Il Milan è stato un disastro in campo perché lo è stato fuori. E questo è chiaro a tutti tranne che ai diretti interessati. Hanno ammesso di non essere soddisfatti ma figuriamoci se mettono in discussione la poltrona. Ci vorrebbe un’esperienza e un carisma che non hanno. Dunque gli uomini di Cardinale rimarranno tutti lì, ai loro posti di combattimento, anche per il Milan che verrà. Un Milan che, in fondo, per la proprietà, non è poi così male. Il motivo per cui il patron americano non entra a gamba tesa nel management del suo club è semplice: l’unica voce in cui il Milan non è un disastro è il bilancio, che è anche l’unica che interessa davvero alla proprietà americana.
Il club viene da due bilanci in utile e potrebbe chiudere quello di questa stagione con un rosso minimo (fossero 10-20 milioni sotto, sarebbe un sostanziale pareggio). In più vanta un’ottima situazione debitoria, il che lo rende solido agli occhi di investitori e interlocutori. Il debito, infatti, non riguarda il Milan bensì il fondo con con cui Cardinale lo controlla nei confronti di Elliott: un cosiddetto vendor loan di cui è stata allungata la scadenza al 2028 con una quota da restituire che si avvicina a 500 milioni. Ma questo al Milan non interessa. La società sta in piedi da sola e ha margine per assorbire i mancati introiti dell’Europa del prossimo anno, dai 60 agli 80 milioni in meno. Basterà vendere uno o due giocatori importanti (Reijnders ha la fila, ma anche Theo Hernandez, Tomori e Leao hanno grande mercato) e generare plusvalenze, tanto non avendo l’Europa potrà mantenere una rosa più corta del normale.