Ci si chiede perché mai sia ancora lui l’unico vero e immarcescibile Cannibale dello sport, non solo del ciclismo. Risposta facile: per i suoi trionfi e percome li otteneva: 525 le corse vinte tra cui 5 Giri d’Italia, 5 Tour de France, 3 Mondiali, 19 Classiche e il record dell’ora di Messico ‘72. Eddy Merckx, 80 anni compiuti da poco, lucida le sue medaglie nella sua bella villa di Meise, zona residenziale di Bruxelles. È in convalescenza.
Eddy, innanzitutto come sta?
«Adesso sono in buona forma ma ho passato un brutto quarto d’ora per un guaio serissimo all’intestino, stavo per raggiungere Felice lassù».
Ora va meglio?
«Sì. Sono tornato persino ad andare in bici, seppur quella assistita».
Oggi parte il Tour.
«Che ho vinto cinque volte».
Perché, esiste una corsa che lei non ha divorato tra il 1965 e il 1977?
«Vero. Sa chi mi affibbiò il soprannome di Cannibale? La figlioletta di un mio rivale e amico, Christian Raymond. Un giorno chiese: papà, perché quell’Eddy non ti lascia mai vincere? È forse un cannibale?».
A proposito di dittatori, Pogacar dicono sia il Merckx del nuovo millennio.
«È un fenomeno, vince sempre e su qualunque terreno. Non è solo uno specialista delle corse a tappe o delle classiche. Sono paragoni irripetibili quando ci sono 50 annidi ciclismo di mezzo ma...».
Ma?
«Esaminiamo i suoi avversari, anche quelli del Tour che parte oggi da Lille. Ione avevo di più e di ben diverso spessore».
Ad esempio, Gimondi?
«Certo. Felice andava bene ovunque: in montagna, in volata, a cronometro. Era un campione completo che mi ha fatto soffrire e mi ha migliorato.
Batterlo era un’impresa».
Le manca?
«Molto. Da rivali siamo poi diventati amici, con il tempo. Era un uomo retto».
Un altro osso duro dei suoi tempi?
«Ocana, un mastino in salita. Che fatica ho fatto per domarlo al Tour. E poi De Vlaeminck o Maertens nelle classiche. Tra l’altro Freddy, belga come me, mi fregò tirando per Gimondi nel mondiale del 1973 e facendo vincere Felice. Avevo sempre cinque o sei campioni contro, in gara. Tadej no».
Pogacar chi deve battere per fare poker nella Grande Boucle e arrivare in giallo sui Campi Elisi?
«Vingegaard è un pericolo, meno Roglic. Evenepoel, dopo l’incidente, mi sembra in ritardo di condizione. Sui Pirenei e sulle Alpi potrebbe soffrire».
Italiani anno zero?
«Eh, non avete il Pantani che in salita seminava tutti. Marco è stato probabilmente il miglior scalatore della storia».
Più di Merckx?
«Diciamo che io ero più completo. Ai miei tempi correvamo dalla Milano-Sanremo al Trofeo Baracchi, nove mesi all’anno. Dovevi essere in grado di fare tutto e andare forte sempre e ovunque, in salita e in volata, sul passo e a cronometro».
Chi potrebbe dare qualche soddisfazione al ciclismo italiano in questo Tour?
«Per la classifica a punti mi parlano bene del friulano Jonathan Milan. Un Bitossi moderno».
Quando parte un Tour, cosa le ritorna in mente?
«Solitamente non vivo nel passato e mi sono rimasti pochi trofei, uno che adoro è una pietra del pavè della Parigi-Roubaix. È nel mio ufficio. Due edizioni del Tour che vinsi sono però legate a momenti di grande intensità: nel 1969, la prima, fu un trionfo significativo per il Belgio che non trionfava al Tour da 30 anni e per me che arrivò dopo la squalifica assurda al Giro d’Italia di un mese prima. Venni incastrato a Savona, nella prima analisi trovarono tracce di sostanze proibite ma nella seconda, fatta poche ore dopo, ero pulitissimo. Possibile?».
Ricordiamo lei piangente al microfono si Sergio Zavoli. Perché sostiene tuttora di essere stato incastrato?
«Ero in maglia rosa con un vantaggio molto rassicurante in classifica e non avrei avuto assolutamente bisogno di doparmi».
La maglia rosa passò a Gimondi?
«Felice, rivale serio, si rifiutò di indossarla per solidarietà. Un bel gesto».
Il secondo flash-back?
«Risale al Tour del 1974, ero reduce da una delicata operazione ma vinsi, in pochi mesi, il Giro d’Italia, il Tour e il mondiale. E tutto il gruppo famelico era lì per battere solo me. Come sempre».
L’impresa più bella?
«La tappa delle Tre Cime di Lavaredo al Giro del 1968. Nevicava, c’erano 5 gradi e staccai tutti per vincere la corsa e il Giro. Non sentivo il gelo, forse perché avevo 23 anni».
La missione impossibile che lei rese possibile?
«Il record dell’ora, anno 1972. Era diventata un po’ la mia fissazione perché il primato appartenuto al danese Ole Ritter non era stato battuto da nessuno. Quell’anno vinsi la Sanremo, il Giro battendo due rivali tenaci quali erano Fuente e Gimondi e poi il Tour piegando il solito Ocana. Così in autunno tentai il record dell’ora a Città del Messico ma senza una preparazione adeguata e specifica come ha fatto, anni dopo, Francesco Moser. Lo centrai però fissandolo a 49 chilometri e 432 metri ma scesi dalla bici urlando: mai più!».
Da questi racconti sale una convinzione: di Cannibali, nel ciclismo, ce ne è stato uno solo.
«Se lo dice lei». Buona vita, campionissimo.