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Jannik Sinner, lo scacchista che muove il fulmine: un campione da romanzo

di Mario Sechi lunedì 14 luglio 2025

4' di lettura

Lo scacchista che muove il fulmine ha vinto il torneo di Wimbledon. Eccolo qui, Jannik Sinner solleva la coppa dorata, sorride alla principessa Kate e compie il miracolo che non c’era, spalanca i cancelli della storia, è la prima volta di un giocatore italiano che alza il trofeo sul campo centrale. Sinner ha vinto, Alcaraz ha perso, il tennis ha trionfato e «il sogno dei sogni» è realtà.

Quante infinite volte lo abbiamo immaginato questo momento? Non ci sono cortei in strada (quelli sono per il calcio, uno sport che in Italia da tempo ha perso l’epica e l’etica), ma la gioia batte forte, stasera si va tutti a cena con un Sinner tatuato sul cuore. Io questo lampo di genio e energia l’ho atteso quasi mezzo secolo e ne è valsa la pena, era un appuntamento con una possibilità senza un eroe, un chiodo fissato nell’infanzia, un’avventura che albeggiava nei discorsi che si fanno tra piccole canaglie («chissà se uno dei nostri, vincerà mai a Wimbledon», dove quel «nostri» suonava come nel Lord Jim di Conrad che ancora non avevamo letto), era un desiderio di quelli che si esprimono anche senza stelle cadenti, ma hanno il suono della palla che rimbalza sul prato del campo centrale.

Dicevi «Wimbledon» e non c’era nient’altro da aggiungere, la magia cominciava a palleggiare da fondo campo. La mia relazione sentimentale con il tennis è cominciata così, con gli dei che fanno il rovescio a due mani e scendono sotto rete, nell’era mitologica degli incontri tra Björn Borg e John McEnroe, nel tempo perduto (e stasera ritrovato mentre Sinner mette a segno l’ultimo servizio e alza le braccia al cielo) di quando ero bambino e con i miei fratelli, Tore e Pietro, prendevamo in affitto per qualche ora il campo del circolo del tennis a Torregrande. Che tempi, niente telefonini, niente internet, niente divieti, la maestra come leader indiscusso, la mamma come generale sul campo, le serate che finivano a pallate in un tempo remoto fatto di racchette di legno e sogni.

Avevo quasi dimenticato quell’appuntamento con Wimbledon, il treno che passava con a bordo «il sogno dei sogni», poi è arrivato in carrozza lo scacchista che muove il fulmine, Jannik Sinner. Il tennis non è uno sport, è una guerra psicologica, è una sfida di strategia e potenza, è il gioco degli scacchi armato dalle saette di Zeus. La partita la giochi prima, con te stesso, nel durante ripari tutti i cortocircuiti che si accendono quando partono i colpi dell’altro, un soffio di vento, una nuvoletta di gesso sull’erba e, santo cielo, «come ha fatto a tenerla dentro?». Jannik è un infinito talento in pieno stato di grazia: Alcaraz ha perso da fondo campo, Sinner ha vinto con la risposta e il servizio con la seconda palla, mettendo la continuità del pensiero razionale nell’incontro, la tenuta nervosa come la tensione che serve ad accendere la luce del dritto e del rovescio.

Sinner è un campione da romanzo, perfetto per un libro di John McPhee, penna sublime che sul tennis ha scritto pagine da leggere come un libro di testo a scuola (Tennis, pubblicato da Adelphi), biografie di tennisti e incontri (la semifinale degli Open Usa del 1968, a Forest Hills, sul campo da gioco ci sono Arthur Ashe e Clark Graebner) che sono l’esplorazione dell’Io che va sul campo da gioco, una cosa da lettino freudiano, signore e signori, silenzio, comincia l’incontro, serve Sinner, ecco a voi «la mente del tennista». Così in diretta tv, si passa dalla completa pazzia dell’istante alla geometria eterna del diamante, la palla che va e viene, i pensieri che non si fermano mai, Alcaraz che fa un primo set perfetto e ha una prima palla di servizio alla nitroglicerina, ma da qualche parte il suo cervello sta cominciando a cigolare.

Poi ci sono i segni premonitori di qualcosa di grande che attendiamo da troppo tempo, si spalanca un abisso di possibilità, emergono in cronaca quei dettagli che anticipano il fatto e il misfatto, soprattutto il disfatto, ecco allora quel tappo di champagne che casca dalla tribuna di Wimbledon con un’eleganza tutta inglese vicino ai piedi di Sinner (cose che accadono solo a Wimbledon), il borbottio iberico di Alcaraz che si solleva come un toro che vuol prendere a cornate i banderilleros, un aereo che passa lassù sopra il cielo di Londra (John McEnroe avrebbe protestato urlando contro il pilota, lo fece), i break sul servizio che sono un preludio e poi un crescendo rossiniano. Ah, Sinner, che sinfonia, uno spartito perfetto dopo la sconfitta al Roland Garros, quella era una fiocina sul petto, ma «bisogna usare la sconfitta e continuare a lavorare». E dunque rieccoci a Londra, ventagli e cappelli, Royal Box e vanità, principesse e Re, battiamo tutti le mani, c’è un bagliore totale, è arrivato «il sogno dei sogni», è lo scacchista che muove il fulmine.

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