Quando oggi lo si vede sollevare Wimbledon e guidare la classifica Atp, è difficile immaginare Jannik Sinner con i capelli rossi lunghi e le guance arrossate dal freddo. Eppure, Wolfram Egarter, ex presidente dell’Afc Sexten e suo primo mentore nel calcio, lo ricorda così al Corriere della Sera: “Il mio primo ricordo di Jannik? Un bambino che a tre anni sciava tutto il giorno e non voleva mai andare a casa — commenta — Era davvero bravo sulla neve, mia sorella era la sua allenatrice. Aveva un fisico magro, sguardo sveglio e quei capelli rossi lunghi… chi non lo conosceva lo scambiava per una bambina”.
Da Sesto, un paesino di neanche duemila abitanti, Sinner è arrivato a scrivere la storia a Londra. Ma prima di Wimbledon c’erano le giornate in cui alternava sci, calcio e tennis: “Tre sport insieme — ricorda — Succedeva spesso che nella stessa giornata si allenasse negli altri sport e poi venisse al campo. Non stava mai fermo, voleva sempre giocare”. Il primo allenatore di calcio fu il papà Hanspeter. "E non gli risparmiava i rimproveri — spiega — Durante una partita lo sostituì perché, per segnare, aveva scartato tutti. ‘Devi passarla, è uno sport di squadra’".
La famiglia, racconta Egarter, ha avuto un ruolo decisivo in Jannik: “I genitori sono stati fondamentali per la sua educazione e l’hanno sempre lasciato libero di scegliere. Lavoravano in un rifugio, Jannik stava spesso con i nonni e veniva con loro agli allenamenti”. In campo era un numero 10 totale: “Aveva una coordinazione incredibile, correva e impostava — spiega ancora l’uomo al Corriere — Segnava 20 o 30 gol all’anno. Dopo gli allenamenti si fermava da solo a calciare le punizioni. Gli avevamo comprato un cerchio da mettere all’incrocio per esercitarsi”.
La stessa fame di miglioramento lo ha seguito a scuola: “Una volta la maestra chiese alla mamma di togliere un quaderno dallo zaino per fargli capire che sbagliare è normale”, aggiunge. Quando decise di puntare tutto sul tennis e partire per Bordighera, a Sesto non fu facile accettarlo: “All’inizio non comprendevamo la scelta, ma il suo coach sapeva quanto valesse. Era l’unico bambino che allenava singolarmente”. Prima di sorrider quando ricorda l’umiltà di oggi: “Quando torna, è sempre uno di noi — conclude l’allenatore — Una volta mia figlia lo guardava a bocca aperta e lui le disse: “Non fare così, sono una persona normale. Per voi sono Jannik”. Ed è rimasto così, umile e consapevole”.