Ricordate la delusione di Roberto Baggio? Le lacrime di Franco Baresi? E se avessimo perso la finale di Pasadena nel 1994 per il cambiamento climatico e non perché il Divin Codino spedì il pallone alle stelle? Chiedetevelo.
Perché in queste ore gufi, critici, professoroni e professorini stanno cercando di usare anche lo stop di Jannik Sinner a Cincinnati, nella finalissima del Master 1000 Atp, per portare acqua al mulino delle teorie sullo stravolgimento delle temperature.
E a esibirsi in queste analisi sono nomi autorevoli. Tra questi, con pacatezza e senza derive ideologiche è l’ex campione di tennis Vincenzo Santopadre che all’Agi spiega: «Le temperature americane hanno certamente inciso. Negli Usa si passa dal freddo polare creato dai condizionatori al caldo e all’umidità feroce in campo, ma la colpa è anche dei calendari e degli impegni fittissimi che finiscono per stressare fisicamente e mentalmente i campioni».
Ma a spostare l’asticella verso analisi spericolate è la rivista FiveThirtyEight che addirittura profetizza la variazione delle temperature negli slam da qui al 2050. Tra 25 anni, secondo questo studio, la temperatura media agli Australian Open dovrebbe toccare i 39 gradi, al Roland Garrso 27 gradi, a Wimbledon i 30 e agli Us Open i 35 gradi. Insomma, eccoci qui: Sinner non ha avuto un colpo di calore, per dirla in modo rude, non ha dovuto fare i conti con un virus intestinale che avrebbe bucato le barriere di protezione dello staff del campione altoatesino (si parla di due fragoline e di una panna-killer nella torta di compleanno, altro delirio). No, sul banco degli imputati, come spesso accade, ci va il clima.
E poco importa se i dati dicono altro. Ad esempio che il Master Cincinnati è forse il più rovente del pianeta. Ma non dal 18 agosto, giorno della finale tra Jannik e Carlos, no, lo è da diversi decenni. E forse da quando si gioca da quelle parti, meglio ricordarlo: dal 1899. A Cincinnati si viaggia sempre sui 30 gradi con il 70 per cento di umidità. Djokovic lo sa: nel 2011 si ritirò contro Murray (ben 14 anni fa). Eppure sui giornaloni di casa nostra ci si arrovella il cervello con interrogativi inquietanti: «I Masters 1000 si sono allungati fino a 10 giorni e il pianeta si è surriscaldato, ma nessuno sembra farci caso», scrive Repubblica.
Qui, sia chiaro, nessuno vuol negare nulla. Ma accostare un tema su cui la scienza dibatte da anni a una partita di tennis forse è un po’ azzardato. A questo punto sospendiamo anche le gare di Formula Uno d’estate. Il cambiamento climatico rischia di sciogliere i piloti dentro le tute e dentro ai caschi mentre sterzano a destra e sinistra, magari anche negli Stati Uniti.
Per fortuna ci hanno pensato i medici (gli esperti veri della faccenda) a spiegare che Sinner è arrivato affaticato alla finalissima: «Le cause potrebbero essere legate all’enorme dispendio di energie delle giornate precedenti unito a condizioni climatiche particolarmente difficili», ha affermato all’Adn Andrea Bernetti, medico fisiatra e segretario generale della Simfer. Già, il caldo. Non il cambiamento climatico.
Tra le due cose c’è un abisso.