Al Meeting di Rimini, fra l’inaugurazione di Mario Draghi e la chiusura di Giorgia Meloni, si è visto un inedito confronto fra i due e il risultato è disastroso per Draghi. La partita è finita cinque a zero per la premier.
Non lo certifica solo l’entusiasmo della platea. Su questo piano la vittoria della Meloni era scontata: tanto lei è in sintonia con i sentimenti della gente, quanto Draghi è gelido. Ha il fascino di un autovelox.
Entriamo nel merito. Draghi, che da trent’anni è ai vertici della tecnocrazia europea, ha fatto un arido discorsetto sul misero presente della UE. Ha ripetuto che l’UE ha sbagliato tutto e per questo non conta più niente. Ma lui è stato parte fondamentale della classe dirigente che – come dice Draghi stesso oggi - ha fallito. E non fa autocritiche. Con l’aggravante di perseverare negli errori, come la delegittimazione delle sovranità nazionali. È come dire: aver sottratto sovranità agli Stati con la UE ci ha messo nei guai, quindi ci vuole più UE. C’è anche un altro aspetto.
Fateci attenzione: Draghi non cita mai un analista, un pensiero, uno storico, un filosofo, un sociologo, uno scrittore. Sembra che non abbia letto un libro da decenni. Non ha visione politica e lo rivendica con una battuta di Helmut Schmidt. Dice esplicitamente che non aderisce a grandi principi o ideali europei (né nazionali). È pragmatismo? O piuttosto vuoto culturale e aridità spirituale?
Risposta: è un tecnocrate (abile, ma non eccelso). Delle sue conferenze stampa restano le battute infelici sul condizionatore e sui vaccini e la barzelletta che raccontò alla stampa estera sui banchieri centrali (come è stato lui) che – a suo dire - hanno un cuore che «non è stato mai usato».
Apprezzabile autoironia. Ma fa riflettere perché in effetti (anche) nel suo discorso di Rimini non c’è nulla che abbia a che fare con la vita della gente. Quindi né un passato meritorio come governo, né visione politica, né valori forti, né consapevolezza dei problemi concreti. Il discorso di Meloni è a livello di grande politica. Inizia con il titolo del Meeting che è un verso di Thomas S. Eliot, «un autore a me molto caro, un cristiano, un conservatore, diventato un punto di riferimento nella storia della letteratura, fino al Premio Nobel del 1948».
Il poema di Eliot parla di operai che costruiscono una chiesa in un deserto urbano che, dice Meloni, è metafora del deserto esistenziale, «un luogo dove gli uomini sono ridotti a “bottiglie vuote”, ad “alveari senza miele”, un mondo vinto dal nulla, dove non c’è spazio per una tensione spirituale».
Raffigura, dice Meloni, «un’epoca nella quale si vorrebbe omologare tutto, trasformare ognuno di noi in un consumatore perfetto, un “vuoto a rendere” che può essere riempito da qualunque cosa si voglia. Individui senza identità, senza memoria, senza appartenenza nazionale, familiare o religiosa».
LA MISSIONE
La premier vuole un mondo diverso. E scende nei dettagli di quello che sta facendo. Rivendica la sua prima missione: «Che l’Italia si riappropri del posto che le spetta nel mondo. Forte, fiera, schietta e leale: in una parola, autorevole. E oggi sono fiera del fatto che l’Italia venga vista così a livello internazionale; che non venga più considerata la grande malata d’Europa».
In effetti tutto il mondo (a partire dagli investitori internazionali) glielo riconosce e questo, insieme alla solidità del governo, ha le sue buone ricadute economiche. Poi c’è il ruolo dell’Italia (la questione dell’articolo 5 della Nato) nel definire la sicurezza per l’Ucraina che può avvicinare la pace. C’è il primato italiano nell’aiuto umanitario alla popolazione di Gaza.
C’è il Piano Mattei per l’Africa che è partito e che è la risposta più saggia all’immigrazione. Vuole una UE «che faccia meno e lo faccia meglio, che non soffochi gli stati nazionali», una UE «capace di riscoprire la propria anima e le proprie radici. Sì, anche quelle culturali, anche quelle religiose colpevolmente negate anni fa. Perché se non sai chi sei non puoi neanche definire il tuo ruolo nel mondo, la tua missione nella storia».
Quindi la premier enuncia gli obbiettivi strategici dell’Italia: combattere la «desertificazione produttiva» e il crollo demografico. Scende nei dettagli. L’elenco delle cose fatte e di quelle programmate è lungo.
Sottolinea – in barba ai profeti di sventura- i tassi d’interesse sul debito pubblico ai minimi storici, l’occupazione (anche femminile) ai massimi («in poco più di mille giorni oltre un milione di nuovi posti di lavoro, la gran parte dei quali a tempo indeterminato»). Poi gli interventi per le aree degradate come Caivano, contro la tossicodipendenza e per i più fragili. Annuncia il varo di «un grande piano casa a prezzi calmierati per le giovani coppie». Eccetera.
Ci fermiamo, ma il discorso della premier va ascoltato per intero perché è un intervento da statista. Cosa rara in Italia. C’è visione politica, tensione ideale, autorevolezza, pragmatismo, decisione e coraggio. E poi i risultati concreti. Il discorso di Draghi non regge il confronto.
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