Faccia a faccia

Meloni-Haftar, il piano per Libia: come fermare l'ondata

Carlo Nicolato

Il presidente del Consiglio Meloni ha incontrato ieri a Roma Haftar, «l’uomo forte della Cirenaica» diventato da qualche mese uno degli interlocutori perla normalizzazione della Libia, nonostante per anni sia stato il principale elemento di disordine del Paese mai ripresosi dalla guerra del 2011. Durante la visita di Roma Haftar ha incontrato prima il ministro Tajani poi appunto Meloni con la quale si è parlato in particolare dei flussi migratori e della situazione in Sudan. Meloni ha comunque fatto presente al generale, nel caso non fosse chiaro, che l’Italia sta con Tripoli, ovvero con le Nazioni Unite, nella speranza che «il processo politico possa portare alle elezioni presidenziali e parlamentari entro la fine del 2023».

LA MISSIONE - Peraltro il presidente del Consiglio italiano si era recato nella capitale libica a fine gennaio, insieme a Tajani e al ministero dell’Interno Piantedosi, seconda tappa di una serie di viaggi in Africa, la prima è stata in Algeria e la terza, solo 20 giorni fa in Etiopia, che servono a preparare il terreno per il lancio, a ottobre, di quello che è stato significativamente chiamato dal governo “Piano Mattei”. «Un modello virtuoso di collaborazione e di crescita tra Unione Europea e nazioni africane, anche per contrastare il preoccupante dilagare del radicalismo islamista, soprattutto nell’area sub-sahariana», così lo aveva definito Giorgia Meloni nel suo discorso di insediamento alla Camera lo scorso anno, aggiungendo che con tale piano «ci piacerebbe così recuperare, dopo anni in cui si è preferito indietreggiare, il nostro ruolo strategico nel Mediterraneo».

 

 

Un’idea ambiziosa, che trova come base non solo il ruolo storico dell’Italia in alcuni Paesi africani, ma anche proprio la presenza in loco dell’Eni di cui Enrico Mattei appunto, è stato il più coraggioso presidente. Il piano della Meloni però, sacrosanto e condivisibile nell’intento, che nulla ha a che fare con un certo neocolonialismo di cui qualcuno ha inopportunamente parlato, deve fare i conti con una realtà profondamente mutata negli ultimi anni e in continua evoluzione.

Basti vedere proprio la Libia, dove l’Italia avrebbe dovuto giocare in casa e dove invece il nostro ruolo è stato considerevolmente ridimensionato dagli interessi contrastanti di Francia, Egitto, Turchia e Russia, presente nel Paese con la Wagner, nonché dalla costante minaccia del radicalismo islamico, dell’Isis e di altre bande criminali attive nella zona, da quelle che si occupano del traffico di essere umani e organi a quelle che si occupano di armi. Ieri si è discusso dell’influenza della Wagner anche nell’incontro tra Haftar e i ministri Crosetto (Difesa) e Piantedosi (Interno).

 

 

Il quadro libico è comune a tante altre zone del continente dove gli attori sono più o meno sempre gli stessi, con l’aggiunta ovviamente della Cina e degli Stati Uniti, la cui presenza, o assenza, è spesso ambigua e dettata da motivazioni ideologiche. Come in Tunisia ad esempio, altro caso scuola. A differenza che in Libia qui Italia e Francia sono dalla stessa parte, insieme hanno convinto la Ue a muoversi per evitare il collasso del Paese e il conseguente esodo verso le nostre coste di centinaia di migliaia di tunisini, e non solo, in fuga dalla miseria. Ma è stato l’intervento dell’amministrazione Biden a far sì che gli aiuti previsti venissero sospesi come ritorsione per la politica “antidemocratica” del presidente Saied contro l’opposizione di impronta islamista.

STABILIZZAZIONE - A metà aprile da Addis Abeba la Meloni ha rilanciato il suo piano promuovendo lo sviluppo economico e la stabilizzazione sociale di quei Paesi nei quali senza un “ruolo forte” dell'Italia e dell’Europa si aprono inevitabilmente le porte “all'ingresso di altri attori”. L’Etiopia è uno di quelli e considerato che è anche uno dei 32 Paesi che si sono astenuti dal votare all’Onu l’ultima risoluzione per il ritiro dei soldati russi dall’Ucraina, l’impresa del nostro presidente del Consiglio appare tardiva e improba. L’Etiopia infatti è entrata solo recentemente nella cerchia di Mosca con una serie di accordi commerciali tra i quali risultano anche forniture di armi che saranno verosimilmente utilizzate per combattere i separatisti del Tigray. Peraltro solo un mese prima di accogliere la Meloni il premier etiope Abiy Ahmed Ali ha incontrato il ministro degli esteri cinese Qin Gang che gli ha annunciato la cancellazione del debito da 30 milioni di yuan (4,5 milioni di dollari) dovuto a Pechino. Insomma, la strada del “piano Mattei” è tutt’altro che spianata.