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Una settimana di governo:sette giorni di sgambettiTutte le grane di Letta

Enrico Letta

Caso Imu, scontri sui nomi, veti sulla Convenzione, incompresioni con Saccomanni, pressing europeo: un esecutivo nato sotto una cattiva stella

Andrea Tempestini
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  di Andrea Tempestini @antempestini Quasi sette giorni di governo Letta, tempo per un primo breve bilancio. Che la strada sarebbe stata in salita, nonostante il clima da emergenza nazionale e il ritorno in pompa magna del "salvatore" Re Giorgio, era chiaro a tutti. Un po' utopico pensare che Pd e Pdl, dopo anni di fiere ostilità, camminassero a braccetto come nulla fosse. Epperò quello a cui abbiamo assistito in questa settimana, forse, ha superato le (cattive) aspettative dei più pessimisti. Non ci si rifersice all'esordio bagnato dal sangue delle pistolettate di Preiti, pur sempre un cattivo presagio, ma alla battaglia in atto più che tra le due forze di maggioranza, contro Letta stessa. Certo, i punti della discordia nascono dall'eterna contrapposizione tra azzurri e democratici, ma le frizioni sembrano mirate a minare l'esecutivo piuttosto che ad altro. Per favorire il clima di pacificazione non è servito nemmeno potare dalla squadra dei ministri i nomi più "sbilanciati", plasmando un insieme molto democristiano e molto poco berlusconiano e bersaniana. I nomi più vicini al presidente del Pdl e all'ex segretario del Pd, di fatto, sono stati fatti fuori.  Questione di nomi - Paradossalmente il tentativo di costruire un governo il più moderato possibile ha finito per scoperchiare un vaso di Pandora. Si inizia con le polemiche di (e su) Renato Brunetta, che più di tutto - e il Cav con lui - desiderava il ministero dell'Economia. Impossibile, per il Pd. Così il caso-Imu, il cavallo di battaglia dell'ex titolare della Pubblica amministrazione, è immediatamente deflagrato attentando alle fondamenta della premiership Letta. Verrà abolita, restituita, rimodulata? Si vedrà. Intanto l'Imu resta sullo sfondo, ombra pesante per le larghe intese. Di venerdì, sempre legato alla girandola dei nomi, il caso Biancofiore: la sua delega alle Pari Opportunità, tirate in ballo vecchie dichiarazioni considerate "omofobe", arroventa il clima. Piovono veti da parte della sinistra. Letta è costretto a "smistarla" alla Pubblica amministrazione. Il Pdl promette di chiudere la polemica, ma la ferita resta. Poche ore dopo arriva la polemica sulla Lorenzin, titolare del dicastero della Sanità, che viene dipinta con tratti un po' massonici: "Subito dopo l'insediamento ha organizzato un vertice con esponenti del Pdl per discutere di sanità, sì, ma solo quella del Lazio". Altri veleni, insomma. Lei smentisce, la tensione sale. Come tensione c'è stata anche per Saccomanni all'Economia - il Cavaliere non lo voleva - e sulle doppie poltrone di Delrio e Zanonato. Incomprensioni - Problemi con i nomi, insomma. Ma i problemi sono anche tutti interni alla squadra. Ai più, infatti, non è sfuggita la scarsa sintonia tra il premier Letta e il ministro più pesante, il già citato Saccomanni. Il presidente, nel tour europeo, stringe la mano di Hollande e i due promettono: "Meno rigore, più crescita". Letta spiega che il fisco è oppressivo e che l'Imu deve essere quantomeno rivisitata. Passano pochi minuti - era il 2 maggio - e il ministro dell'Economia, durante la sua prima audizione al Senato sul Def, spiega che "in questo momento non ci possono essere rinegoziazioni con la Ue per i parametri dell'Italia". La semplice traduzione: ancora rigore, possibilmente la crescita e poi, semmai, si pensa ad alleggerire il carico fiscale. Lo stesso carico fiscale che secondo l'Ocse, ora, il Belpaese non può alleggerire. Letta e Saccomanni sembrano su differenti lunghezze d'onda, e contro il neonato governo italiano piovono i diktat delle autorità europee, attente a non farci deragliare dai funesti binari dell'austerità- Cattiva stella - Come detto all'inizio di questo breve bilancio, chi è rimasto fuori dalla squadra è Silvio Berlusconi (lui, in persona, e in senso lato). Difficile immaginare che il Cav potesse digerire senza colpo ferire una simile esclusione. E infatti ha rilanciato. Lo ha fatto sulla cosiddetta "Convenzione", una sorta di commissione ad-hoc (idea di Bersani) per riscrivere la seconda parte della Carta. L'ex premier vorrebbe la presidenza. Da parte delle sinistra piovono veti e minacce: in prima linea Matteo Renzi e Stefano Fassina, fresco di nomina come viceministro dell'Economia. Per Renzi il "niet" è anche una vendetta contro chi non lo ha voluto a Palazzo Chigi (Berlusconi). Per Fassina il rifiuto è tutto ideologico. Sulla Convenzione, insomma, si consuma lo scontro più aspro tra i partiti che reggono questa maggioranza. E aspri scontri sono in corso all'interno dei partiti stessi. L'infornata di vice e sottosegretari è stato una sorta di redde rationem, un escamotage per tranquillizzare le correnti esclusi (significativa, in tal senso, proprio la nomina di Fassina). Il risultato? Scarso. I partiti continuano a bollire. Da una parte falchi e berlusconiani azzurri, dall'altra l'anima ex-Ds del Pd, a cui si uniscono renziani e "grillini" alla Civati. Tutti contro tutti. Tutti contro il governo Letta, in una sorta di gara allo sgambetto e al tiro incrociato contro un esecutivo nato sotto una cattiva stella.  

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