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Il patriarcato? Uno strumento del passato da mandare al museo

di Nicoletta Orlandi Posti sabato 22 novembre 2025

3' di lettura

Se è vero che bisogna aspettare il 2148 per raggiungere l’uguaglianza di genere, possiamo nel frattempo mandare in archivio, come pezzi di archeologia industriale inutilizzabili e dunque inoffensivi, tutti quegli strumenti che il patriarcato usa negli anni Venti del XXI secolo, per autoalimentare il suo potere e mietere vittime. Non è solo un’idea per sentirsi meglio. È quello che ha fatto ActionAid pochi giorni prima della Giornata internazionale dedicata all’eliminazione della violenza contro le donne allestendo nello Spazio AlbumArte di Roma il MUPA – Museo del Patriarcato

Ai visitatori viene infatti chiesto di compiere un salto temporale di 123 anni per ritrovarsi - come prevede il Global Gender Gap Report - in una società che ha archiviato la pratica e che usa le testimonianze del passato come monito. Immaginiamo i nostri pronipoti che nel 2148 visiteranno un museo come questo come noi visitiamo oggi un’esposizione su un’epoca drammatica, ma ormai superata. Entreranno nelle sale con la naturale distanza di chi osserva un sistema che non appartiene più al proprio orizzonte. Una ragazzina si fermerà davanti a una teca che espone due buste paga INAIL stesso lavoro, stesso orario, stessa mansione. Una è bianca, l’altra è rosa. «Succedeva davvero?», chiederà alla bisnonna che la accompagna. La risposta sarà un sì minimo, quasi trattenuto, sufficiente a far capire che quella disparità era considerata normale.

Proseguendo, la ragazzina vedrà una porta sfondata dal colpo di un pugno. Poi un muro composto da parole che per lei avranno un significato remoto: femminicidio, stupro, schiaffi, insulti, stalking, controllo, misoginia. In un’altra sala, uno specchio rifletterà il volto sorridente di un uomo bianco accanto a frasi che paiono fossili linguistici: «Lascia che ti spieghi», «Sei troppo emotiva». Tutto apparirà distante, quasi inconcepibile. Ma quello che per i pronipoti sarà passato remoto. Per noi è ancora il presente.

Le sale restituiscono infatti ciò che siamo abituati a vedere senza indignarci più: buste paga differenziate per genere, porte danneggiate dalla violenza domestica, scenari di vita quotidiana in cui il corpo femminile è costretto a negoziare spazio e sicurezza. In una stanza è stato ricreato l’interno di un mezzo pubblico, con due manichini uomini che invadono il corpo di una donna: una scena che tutti conoscono ma che, isolata e sospesa, rivela la sua gravità.

Non manca la sezione dedicata ai media. Le prime pagine dei giornali espongono la sistematicità di un linguaggio che cancellava le donne, o le nominava soltanto attraverso il loro aspetto. In un riquadro compare la frase di Donald Trump rivolta a Giorgia Meloni — «Lei è bellissima, non se la prende vero se glielo dico?» — mentre una fotografia ricorda la puntata di Porta a Porta sull’aborto discussa da un tavolo composto esclusivamente da uomini. Sono reperti che oggi riconosciamo senza difficoltà, anche quando preferiremmo considerarli residui del passato. 

Ecco perché la scena immaginata del 2148 deve diventare realtà. Se e quando accadrà dipenderà da quanto saremo capaci di riconoscere ciò che oggi ancora ci attraversa e ci riguarda. Perché la distanza che i nostri pronipoti daranno per scontata, noi dobbiamo costruirla adesso. La ricerca “Perché non accada”, condotta da ActionAid con l’Osservatorio di Pavia e 2B Research, mostra infatti che ancora nel 2025 un uomo su tre giustifica la violenza economica, uno su quattro quella verbale o psicologica, e quasi due su dieci considerano accettabile la violenza fisica. Il 74% delle donne si occupa ancora da sola del lavoro domestico, mentre negli spazi pubblici la percezione di insicurezza resta diffusa. Anche nel digitale e nella cultura gli stereotipi continuano a circolare con costanza, e la linea generazionale non segna un reale miglioramento: i più giovani riconoscono la violenza ma faticano a rifiutarne le radici.

Soprattutto chi tende a negare l’esistenza del patriarcato dovrebbe attraversare queste sale, ha puntualizzato la testimonial del MUPA, Violante Placido, a ragione. L’obiettivo è rendere la mostra itinerante, da portare anche a Milano, Napoli e in altre città. A Roma rimarrà aperto fino al 25 novembre con laboratori, incontri, performance e momenti di confronto. Oggi, 22 novembre, il Museo però resta chiuso per permettere a chi vi lavora di partecipare alla manifestazione nazionale di Non Una di Meno.

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