Pasolini era un conservatore. Detta così potrebbe sembrare una battuta, o poco più. Proprio lui, che era stato sempre vicino al Pci, pur non essendo sempre amato e compreso dal Partito? Colui che all’analisi marxista della realtà si era sempre richiamato, fino all’ultimo e maledetto capolavoro cinematografico che che fu Salò? Conservatore proprio un animo libertario e anticonformista come il suo?
Eppure, non pochi sono gli elementi che avvalorano l’ipotesi. Anche perché lo scrittore friulano aveva intuito con largo anticipo la deriva della sinistra, il suo modificarsi e trasformarsi in qualcosa d’altro. In verità, la «mutazione antropologica», che la sinistra avrebbe poi cavalcato, per Pasolini era stata propria di tutti gli italiani, e forse dell’intero Occidente. In pochi anni, l’Italia era passata dall’essere un Paese povero e rurale a diventare una potenza industriale e manifatturiera. Ma il nostro era stato un «sviluppo senza progresso». Ci eravamo persi per strada le sani e semplici tradizioni legate al mondo contadino e le idee stesse di comunità e solidarietà che a quel mondo erano legate.
In più, senza radici, ci affidavamo ora a un mondo nuovo dominato dai futili desideri indotti in noi dal potere e dal consumismo. Di cui, in pratica, ci facevamo «servi volontari». In sostanza, il capitalismo ci aveva comprato anche l’anima, perfezionando il progetto del fascismo. Ne era venuto fori un mondo omologato, conformista, ove ogni idea difforme dal mainstream veniva combattuta senza necessità di coercizione fisica, semplicemente isolando o rendendo impossibile la vita a chi la portava avanti. Le stesse idee di rivolta e rivoluzione venivano in qualche modo inglobate dal «sistema», che così le rendeva innocue. Ci dominava un «potere senza volto» che risponde a dinamiche e interessi sovranazionali e che prova con successo a condizionare e determinare le nostre vite.
Questo «vero» e «nuovo fascismo» ha per fine «la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo». Da qui anche una lettura del Sessantotto come rivolta non contro ma interna al sistema, e tante prese di posizione che lo avvicinano, paradossalmente, ad un altro dei pochi, grandi, conservatori operanti in Italia in quegli anni: Augusto Del Noce. Come il grande filosofo, fra l’altro, Pasolini era cattolico e convintamente antiabortista. Se Del Noce intuì che il vecchio Pci presto si sarebbe trasformato in un «partito radicale di massa», Pasolini inserì dal canto suo nel discorso la polemica sul «fascismo degli antifascisti» che faceva dell’intolleranza dei compagni un atteggiamento speculare a quello dei loro nemici dichiarati. Anche per Pasolini, come per Umberto Eco, il fascismo finiva per perdere così la sua concreta dimensione di fenomeno storico per assumere le sembianze di un concetto metastorico e addirittura metafisico. Se però il «fascismo eterno» di Eco mirava a colpire le forze non progressiste, delegittimandole preventivamente, il «nuovo fascismo» di Pasolini individuava con acume proprio in quell’atteggiamento illiberale il nuovo ideale di forze di sinistra che avevano per prime venduta anche loro l’anima al diavolo.
Quella forte alleanza, o almeno convergenza, fra le forze del capitalismo e del progressismo politicamente corretto e nemico della tradizione, che avrebbe segnato l’età della globalizzazione, è già qui tutto descritto e denunciato. Così come è già tutta presente nelle pagine pasoliniane quella divaricazione fra le élite progressiste che dirigono il mondo e il popolo succubo e indifeso. È in quest’ordine di discorso che si inserisce la difesa dei poliziotti, figli di gente umile che per un misero stipendio rischiano ogni giorno la vita, contro i sedicenti rivoltosi del Sessantotto, per lo più figli di papà che sarebbero presto rientrati in funzioni dirigenziali nel sistema che dicevano di voler abbattere. Come Nietzsche diceva di sé, forse anche Pasolini è venuto troppo presto per noi.