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Giro del mondo per non pagare tasse

di Ignazio Stagno domenica 11 maggio 2014

4' di lettura

«È chiaro che il mio ufficio deve stare a Londra dove, come sapete, c’è il nostro domicilio fiscale». Così Sergio Marchionne, rispondendo ad una domanda in occasione dell’Investor day di Fiat Chrysler Automobiles, ha rivelato che presto metterà su casa nella capitale del Regno Unito, magari vicino alla nuova maison di Ian Read, ceo di Pfizer, pronto a trasferirsi dagli Usa nella capitale britannica se andrà in porto la mega operazione d’acquisto di Astra Zeneca: 106 miliardi di euro per comprare uno dei gioielli dell'industria pharma di Sua Maestà Britannica. E garantirsi, come nel caso della nascente Fca, un passaporto fiscale in quel di Londra che le riforme di David Cameron hanno trasformato, parola del Financial Times, «in un discreto paradiso fiscale». Niente di paragonabile, per carità, all’Irlanda, già nido per i profitti dei colossi Internet, Google, Facebook e Twitter in testa, ormai di gran moda per le aziende farmaceutiche Usa. Solo negli ultimi mesi hanno traslocato il quartier generale Endo, Perrigo, Horizon Pharma, Actavis, Alkermes, Jazz Pharmaceuticals, Covidien e Forest Laboratories. Un esodo che porta bene al fisco di Dublino, ai conti delle multinazionali Usa (su 100 miliardi di profitti negli ultimi dieci anni il fisco irlandese ha incassato solo il 6 per cento) ma che, in termini di posti di lavoro, rappresenta meno del 2 per cento per l’isola. Benvenuto nell'era della «tax inversion», ultima espressione delle capriole dei big dell'economia globale per farsi tassare il meno possibile. Le prime 22 corporations americane, secondo i calcoli di Bloomberg, hanno accumulato all’estero 984 miliardi di dollari, un tesoro che ben si guardano dal rimpatriare in Usa. La legislazione americana, infatti, prevede che questi capitali possano essere tassati solo al rientro in patria, sotto forma di utili e dividendi da staccare per gli azionisti. Di qui una serie di espedienti per evitare la tagliola dell’Irs, l’agenzia delle entrate a stelle e strisce. Apple, ad esempio, ha appena emesso in patria un bond di 12 miliardi di dollari per pagare la cedola extra ai soci. Una decisione all’apparenza bizzarra, visto che Apple ha in cassa 130 miliardi in contanti. Ma questi quattrini sono posteggiati fuori dagli Usa, al riparo dai Befera americani. Molte delle Opa lanciate in questi mesi di boom (quasi 1.400 miliardi in M&A) hanno origine dai tesori ben custoditi all’estero, come ad esempio i 13,1 miliardi offerti a General Electric per Alstom. Ma in questi giorni si assiste ad un salto di qualità. Pfizer, infatti, non si limita a proporre l’acquisto di Astra. Il disegno, già presentato al governo di Sua Maestà, è di trasferire sotto la bandiera della futura controllata britannica buona parte delle attività di Pfizer, compresa la maggior parte degli investimenti in ricerca e sviluppo. Il motivo? In Usa il colosso pharma paga il 32,8% sui profitti. Nel Regno Unito l’aliquota è oggi del 21% ma l’anno prossimo scenderà al 20%. Non solo. Su pressione dell’industria, il Cancelliere allo Scacchiere George Osborne ha introdotto, imitando l’Olanda, il patent box, abbassando l’aliquota per le spese di ricerca e sviluppo effettivamente effettuate nel Regno Unito al 10%. Di qui la convenienza a far le valigie alla volta di Londra. Non è una scelta isolata quella dell’inversion tax, ovvero di basare le strategie sulla convenienza fiscale piuttosto che su altri fattori economici o sociali. Barack Obama ha cercato di frenare il fenomeno imponendo condizioni rigide per i trasferimenti di sedi sociali. La risposta è stata l’operazione Pfizer (già imitata da due multinazionali, Actavis e Valeant): se non mi posso trasferire, compro una società del posto. Ora il fisco Usa medita di alzare nuovi vincoli per evitare la fuga dei contribuenti più ricchi. Intanto gli 007 delle imposte di Parigi e Londra sono riusciti a far fallire il matrimonio tra Publicis e Omnicom, da cui doveva nascere, sede a Amsterdam, il primo gruppo mondiale della pubblicità, matrimonio di pura convenienza fiscale. Ma sono in pochi a farsi illusioni: aziende molto ricche sembrano oggi in grado di prendere il sopravvento su Stati affamati di entrate, perciò in competizione tra loro. Il risultato? «Per gli azionisti il fenomeno è positivo - risponde Mighael Devereux, professore di scienze tibutarie ad Oxford - ma così vengono sottratte risorse all’economia globale». Si potrebbe obiettare che certe scelte, tipo quella di Fca, hanno altre motivazioni oltre al fisco. Il che è senz’altro vero così come è vero che le controllate italiane della holding continueranno a pagare le tasse in Italia. Ma gli azionisti, a partire da Exor, pagheranno una corporate tax del 21%. E poi, non meno importante, c’è il bonus sull’innovazione tecnologica: per un’azienda che fa ricerca ed innovazione, dai motori ai materiali un’aliquota solo del 10% sui diritti derivanti dai brevetti è un incentivo quasi irresistibile. E poco conta se, per averne diritto, oltre alla scrivania di Marchionne sarà necessario trasferire qualche cervello da Detroit e Torino. di Ugo Bertone

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