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Corrado Passera, le conseguenze della guerra: "Banche italiane solide. Ma occhio alle tasse..."

Pietro Senaldi

«Non è il caso di fasciarsi la testa. Non mi appiccico l'etichetta di ottimista ma vedo importanti segnali non negativi nella situazione attuale».

E dove li vede?
«Nel mondo delle imprese, che è quello in cui lavoro da tre anni con Illimity, la mia "banchetta", che finanzia la crescita e la ristrutturazione delle aziende, ma anche le loro aggregazioni, ed è anche specializzata nell'acquisto di quei crediti andati male dove si può ancora creare valore e chiudere procedure che se no durerebbero secoli».

Eppure tutti dicono che la guerra in Ucraina è l'anticamera di una nuova crisi, o forse la prosecuzione di quella nella quale ci ha precipitato il Covid, arrivato quando ancora non ci eravamo ripresi dallo choc finanziario del 2008...
«Calma a dare per scontato il peggio. Molto dipenderà dalla durata della guerra e dalle misure che sapremo prendere per fronteggiarne le conseguenze. Le banche, anche durante la crisi Covid si sono dimostrate parte della soluzione e non del problema come era successo in occasione di alcune crisi precedenti. Hanno bilanci robusti e oggi sono in grado di gestire la nuova inevitabile ondata di crediti difficili, che peraltro sono scesi da 200 a 30 miliardi sui loro bilanci. I momenti difficili stanno tornando, ma il sistema stavolta è preparato e l'ondata negativa non sarà alta come le precedenti».

Ma le sanzioni non ci metteranno a terra?
«Ci fa male la guerra e le sanzioni servono anche per farla finire e per evitarne altre. È chiaro che la crisi ucraina ha effetti gravi anche su molte imprese che importano o esportano con i due Paesi in guerra, con un effetto domino sui loro clienti e fornitori. Però quello in Russia rappresenta meno dell'1,5% del nostro export totale , 7-8 miliardi su 550. Per molte imprese è un terremoto, ma per ora gestibile a livello sistema».

 

 

Le sanzioni alla Russia come un investimento per la democrazia, l'impennata delle bollette come un avvertimento all'Italia a smetterla di rendersi troppo dipendente da un unico fornitore e la guerra come un'occasione per l'Europa di cementarsi e darsi una politica estera, militare ed economica comune. Parola di banchiere, imprenditore, ex ministro, amministratore delegato di colossi pubblici. «Le difficoltà legate alla guerra sono contingenti, possono rientrare in tempi anche non lunghi se sapremo tenere una posizione ferma. Il prezzo delle bollette è destinato a scendere strutturalmente rispetto ad oggi anche se non si rivedranno i prezzi dell'energia del tutto anomali, al ribasso, che erano stati raggiunti durante la crisi Covid. Nell'immediato bisogna naturalmente aiutare le imprese più colpite e le famiglie». Corrado Passera la vede meglio di quanto appare all'italiano medio. «Le dico una cosa paradossale, ma nella quale credo molto. Se è il caso, spegniamo i termosifoni o i condizionatori. Esistono valori superiori per i quali vale la pena di fare sacrifici anche molto grandi. Non si può consentire che Mosca invada un Paese libero, indipendente da trent' anni e riconosciuto dalla comunità internazionale. I dittatori, se li lasci fare, non si fermano da soli; la storia lo insegna. Se Putin ha attaccato l'Ucraina è perché, dopo che gli è andata bene in Georgia nell'Ossezia del Sud, in Cecenia, in Crimea e più recentemente in Kazakistan, ha pensato che il ventre dell'Occidente è molle e ha tentato il colpo grosso, annettersi l'Ucraina e le sue immense riserve di gas e di metalli rari, nonché la sua enorme capacità agricola per fare un ulteriore passo nella ricostruzione dell'Impero».

L'Occidente però finanzia il nemico, lo ha detto perfino Draghi: un miliardo al giorno per l'energia russa. Non è un cortocircuito?
«È la nostra grande responsabilità, in particolare dell'Italia, ma non solo: se ti leghi un cappio al collo, prima o poi qualcuno te lo stringe. Nessun Paese al mondo si dovrebbe concentrare così tanto su un solo fornitore. Gli amici della Russia erano tanti. Il problema è che il gas non è il solo cappio che ci siamo stretti intorno al collo».

Quali sono gli altri?
«Le terre rare, i metalli preziosi per le nuove tecnologie, che si trovano in Africa e su cui la Cina ha allungato da tempo le mani. E poi i semiconduttori. Noi ormai viviamo grazie ai microchip che animano i nostri telefoni, le nostre auto, i nostri computer e il cui mercato è sempre più concentrato tra Pechino e Taiwan».

E Pechino sta per prendersi Taiwan come Mosca l'Ucraina...
«Questo non è scontato, perché la Cina è molto interdipendente con il resto del mondo e penso sappia che annettere Taiwan potrebbe creare alla sua economia più guai che vantaggi. Però certo, la reazione ferma dell'Occidente a Putin è anche un messaggio a Xi Jinping».

 

 

Da più parti si sostiene che il problema è che ormai Usa e Ue hanno interessi divergenti, se non contrastanti...
«La spaccatura è stata particolarmente evidente durante l'Amministrazione Trump, ma dobbiamo confidare in leader che credano in un progetto di alleanza tra le democrazie. La Ue deve essere alleata degli Stati Uniti, ma da grande potenza a sua volta e con una indipendenza economica e anche militare molto superiore all'attuale. Il Pil europeo e quello americano non sono molto diversi mentre forse non tutti sanno che quello della Russia è circa un decimo. Il confronto futuro tra i grandi blocchi mondiali non sarà comunque solo economico e militare, ma tra modelli culturali e di civiltà».

Noi siamo specializzati nel rinnegare la nostra storia e la nostra civiltà. Le dice niente la cancel culture, che importiamo direttamente dagli Usa?
«Ovvio che bisogna smetterla di darsi randellate sulle ginocchia. L'Occidente è un modello di società con molte varianti ma di cui essere orgogliosi: nessun altro ha raggiunto un equilibrio altrettanto avanzato di libertà, diritti e welfare. E l'Europa più degli Stati Uniti. La democrazia non si può e non si deve imporre dall'esterno, ma si può essere modello anche per altri».

Si dice anche che la guerra in Ucraina danneggi noi ma non l'America, che anzi la incentiverebbe proprio per danneggiarci...
«Forse in un mondo a guida esclusivamente americana sarebbe una ipotesi da considerare, ma siamo lontanissimi da un mondo del genere. Negli ultimi mesi abbiamo visto qualche segno positivo nelle relazioni atlantiche ma non possiamo dare più per scontato l'ombrello militare degli Usa, anche se c'è la Nato. Per questo è importante che gli Stati Ue sviluppino una politica militare comune: saremmo molto più forti dal punto di vista geopolitico e all'interno della Nato e potremmo anche risparmiare risorse importanti».

Sa di libro dei sogni, non crede?
«L'unico futuro per gli Stati europei è di giocare la nostra forza unitaria che è molto più grande della somma dei singoli. Abbiamo già iniziato a farlo, per reagire alla pandemia, con il Recovery Fund: gli eurobond sono stati un passaggio storico perché abbiamo dimostrato che esiste un livello federale che permette di affrontare sfide altrimenti insuperabili. Possiamo applicarlo a molti settori».

Gli italiani sono più preoccupati di lei; anche il consenso verso il governo tecnico non è più quello di un anno fa...
«Io credo che la maggioranza degli italiani non sia stanca di Draghi, che continua ad avere un gradimento personale del 60%. Forse sono i partiti a essere stanchi del premier, e sentono il richiamo delle elezioni».

Parla per esperienza personale?
«Il meccanismo è noto. I partiti quando il Paese si trova in situazioni di crisi grave chiamano i tecnici per salvare l'Italia dai danni che hanno fatto e per i primi mesi li sostengono. Poi, quando i tecnici fanno il loro lavoro e la crisi morde meno e soprattutto se si avvicinano le elezioni, i partiti vogliono tornare al posto di guida. Di per sé non ci sarebbe nulla di male, ciò che importa è che non si rimettano a fare ciò che aveva causato la chiamata dei tecnici».

Dal governo tecnico non si esce come ci si è entrati. I tecnici sconvolgono il quadro politico. Cosa prevede?
«Chi può dirlo? I partiti e gli elettori sono diventati molto creativi negli ultimi venticinque anni. Abbiamo avuto nuovi partiti di ogni genere, successi strabilianti e crolli clamorosi...».

Come se lo spiega?
«Promesse non ragionevoli e irrealizzabili per attirare consenso rapidamente, ma che fanno crollare rapidamente i voti quando i risultati non rispondono alle aspettative».

Draghi riuscirà a mettere a terra i soldi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza?
«Il Pnrr è stato ben disegnato nelle sue linee generali, non pensiamo che possa risolvere tutti i nostri problemi. Si tratta di 30-40 miliardi l'anno, che vanno fatti rendere al meglio e che è giusto concentrare sulla transizione ecologica, le infrastrutture e la digitalizzazione; però è ancora più importante spendere meglio gli altri 150 miliardi circa che sono disponibili in investimenti pubblici finanziati con risorse nazionali ed europee "normali"».

Come andrebbero indirizzati?
«Investire dove il privato non investe, ma dove c'è interesse strategico: ricerca di lungo periodo e infrastrutture digitali, fisiche e sociali. Riforme coraggiose: istruzione e formazione prima di tutto, giustizia e sicurezza, funzionamento della macchina pubblica: tutto è diventato inutilmente lungo e complicato e in tutti i settori è come avere il freno a mano tirato. E poi premiare i comportamenti virtuosi delle imprese che creano vero sviluppo».

Detto così...
«Parlo di cose molto concrete e per le quali le modalità fiscali sono già state sperimentate: parlo di premiare chi investe in innovazione, chi assume, chi mette capitali nelle imprese, chi le aggrega».

Le piace il decreto fiscale del governo?
«È tutto ancora molto generico. In questo momento di oggettiva ulteriore difficoltà sarebbe estremamente utile vedere premiato chi tiene duro, chi vuol farcela, chi dimostra fiducia nel nostro Paese».