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Parità salariale, (più di) un secolo di tentativi. Resta un miraggio?

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L'ultima Direttiva europea e l'elemento originale che potrebbe fare la differenza

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Pari remunerazione per un lavoro di pari valore. Nero su bianco, un principio che sta nella Costituzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro dal 1919. Lì, in quella Carta, il valore del lavoro svolto è in posizione iniziale per merito, per importanza rispetto alla determinazione della retribuzione. Non contano, non devono, le connotazioni personali. Nel Secondo dopoguerra (siamo oramai a metà del ‘900), all’andamento crescente dell’occupazione persisteva, pur tuttavia, la disparità di trattamento salariale.

Così, il virtuoso principio, benché riconosciuto nei confini europei, dovette essere declinato nella Convenzione OIL n. 100 sulla parità salariale tra uomo e donna (1951), che imponeva agli Stati aderenti di garantirne l’applicazione valutando, appunto, il valore del lavoro al di là di chi lo svolgesse, se uomo o donna. In Italia, la Convenzione n. 100/1951 ha aperto la strada al dibattito e all’esigenza, sentita più che il resto, di rendere effettivo quel principio che già tre anni prima (1° gennaio 1948), occupava il contenuto dell’articolo 36 della Costituzione della Repubblica. La sua attuazione, però, continuava ad essere procrastinata. Bizzarro.

La ratifica della Convenzione, nel 1956, ha attivato da noi riforme legislative e della contrattazione collettiva che hanno abolito i trattamenti salariali discriminanti in ragione del genere. Da allora ad oggi il tema – in territorio internazionale – è restato attuale, rinforzato di tanto in tanto da dispositivi tesi a migliorare il contesto uomo/donna in ambiente lavoro.  Non che non si registrino salti in avanti, ma quest’anno è tornato prepotente il bisogno, per il Legislatore unionale, di rafforzare l’applicazione del principio. Come? È stata approvata (10 maggio 2023) la Direttiva (UE) 2023/970, che si innesta sulla precedente (CE) 2006/54.

La questione è la medesima: rendere effettivo il principio di parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro di pari valore attraverso la trasparenza retributiva e i relativi meccanismi di applicazione, davanti all’insistente grave divario retributivo di genere in Europa, pari al 13 per cento (il dato varia di Stato membro in Stato membro). Molto (troppo?) sulle cause s’è detto e scritto. Qui, l’aver rintracciato nel calderone dei “dati di governo” - in un elaborato di Maria Luisa Vallauri (Università di Firenze) – l’elemento che, a ben vedere, considero finalmente originale, presta il fianco ad una nuova traccia. 

Qual è? Ebbene, se la base giuridica della Direttiva da poco approvata è l’art. 157, parr. 1 e 3, TFUE, non è viceversa richiamato, evidenzia la Valluri, il par. 2, che dà la definizione di retribuzione utile ai fini dell’attuazione del principio di parità di trattamento. La circostanza che non venga citato libera alla ridefinizione della nozione. Una scelta che l’autrice del testo originale – rubricato “Direttiva (UE) 2023/970: una nuova strategia per la parità retributiva” – giudica “importante, dal momento che il divario retributivo fra uomini e donne, almeno in Italia, dipende spesso proprio da come sono distribuite e quantificate le voci accessorie della retribuzione”.

Centrali, dunque, le “componenti complementari o variabili” di cui viene fatta menzione nel Considerando 21 della Direttiva. Che sono tutte “le eventuali prestazioni che si aggiungono al salario o allo stipendio normale di base o minimo”, compresi “bonus, indennità per straordinari, servizi di trasporto indennità di vitto e alloggio, compensazioni per la partecipazione a corsi di formazione, indennità di licenziamento indennità di malattia previste dalla legge, indennità obbligatorie e pensioni aziendali o professionali (…), elementi di remunerazione dovuti per legge, in virtù di contratti collettivi e/o di prassi in vigore in ciascuno Stato Membro”. Scelta, sì, importante.    

di Alessia Lupoi
Direttore responsabile di redigo.info
 

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