Tempi duri per i gufi. Passano le settimane. E l’apocalisse dei mercati vaticinata dai profeti di sventura si ostina a non palesarsi. Anzi, i listini a cui è andata peggio hanno completamente azzerato le perdite iniziali. Quelli a cui è andata meglio, come la nostra Piazza Affari, hanno invece inanellato buoni guadagni, sgretolando le speranze dei catastrofisti.
I numeri parlano chiaro. Fissando il 2 aprile, il giorno del famoso Liberation Day, come base di partenza, il bilancio di 30 giorni si è rivelato senza dubbio positivo. Ma le cose non sono affatto cambiate ad una settimana di distanza. Anche prendendo in considerazione l’arco temporale fino al 9 maggio, il risultato non cambia. Wall Street, la Borsa più colpita dall’effetto dazi a inizio aprile, non ha fatto faville negli ultimi giorni, interrompendo una serie positiva di 11 giorni che non si vedeva dal novembre del 2004. Ma il risultato finale è comunque in pareggio rispetto al 2 aprile, malgrado le cadute che qualcuno non ha esitato a paragonare ai crolli della Grande depressione e della crisi dei mutui subprime.
Dimenticandosi che nel primo caso il Dow Jones, l’indice principale, tornò ai livelli del 1929 solo nel 1954, mentre nel secondo le difficoltà durarono all’incirca dal 2008 al 2012. Ma tant’è, gli esperti di economia intorno al 9 aprile ci hanno spiegato che l’abisso in cui erano precipitati i titoli finanziari era devastante e avrebbe avuto impatti duraturi non solo sui colossi di Wall Street, ma anche sui fondi che investono in Borsa per finanziare la previdenza dei lavoratori. Insomma, un dramma sociale di proporzioni siderali. Ne siamo proprio sicuri? In realtà i prodotti pensionistici hanno prospettive temporali decennali, il Dow Jones dal 2010 ad oggi, malgrado lo spaventoso crollo dell’epoca Covid, ha praticamente quadruplicato il suo valore e a poco più di un mese di distanza non c’è più traccia delle “spaventose” perdite subite a causa degli annunci dei dazi fatti da Donald Trump. In altre parole, non c’è alcun elemento per giustificare gli allarmi lanciati nelle scorse settimane che gli anti-trumpiani più caparbi continuano ancora oggi a spargere sui media.
E ancora meno elementi risultano a disposizione per mettersi le mani nei capelli in Europa. La Borsa tedesca di Francoforte ha chiuso la settimana a +1,7%, quella di Milano ha addirittura registrato un robusto +2,7%. Stesso discorso se si parte dal 2 aprile. Il Dax è a +4,3%, il Ftse Mib a +2,4%. L’indice europeo Eurostoxx è stabile, ma comunque sopra la parità (+0,10%).
Ci hanno raccontato un sacco di frottole? Probabilmente sì. Ma per i produttori di balle, che raramente smettono di darsi da fare, la spiegazione è un’altra. I listini si sarebbero salvati solo grazie alla frenata del presidente Usa che, impaurito proprio dalle ripercussioni finanziarie, avrebbe deciso di darsi una calmata. Anche qui il contatto con la realtà è fragile. Trump fin dall’inizio ha detto che la sua strategia era finalizzata a raggiungere accordi commerciali, come quello appena siglato con la Gran Bretagna, e fin dall’inizio ha detto di aver messo in conto temporanei terremoti sui mercati. «Le vendite non mi preoccupano. I mercati vanno su e giù, noi dobbiamo ricostruire questo Paese», ha spiegato il tycoon a metà marzo, di fronte alle prime oscillazioni dei listini.