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Confindustria, le dinastie d'impresa devono tornare a investire da noi

In uno scenario di patto sociale, è bene soffermarsi sul tema del capitalismo italiano addormentato e sempre meno presente nelle sorti delle aziende di casa nostra
di Bruno Villois mercoledì 28 maggio 2025

2' di lettura

L’assemblea annuale di Confindustria rappresenta da sempre, insieme a quella dalla Banca d’Italia, il primo riferimento sullo stato di salute del nostro sistema socio-economico. Bene ha fatto il presidente Orsini a lanciare la proposta di realizzare un grande patto sociale tra governo e più in generale politica, rappresentanze datoriali e sindacali dei lavoratori, a caratura nazionale, con il fine di realizzare un duraturo rilancio del sistema Paese, annichilito da anni di crescita a pochi decimali.

Giustamente nel sottolineare gli aspetti salienti del progetto, Orsini si è soffermato sul tema energia il cui costo è superiore a quello delle altre due economie trainanti di Eurolandia, Germania e Francia, tra la meta e tre quarti. Un eccesso di costo che riduce sensibilmente il potenziale competitivo, limita gli investimenti per modernizzazione e innovazione e parimenti incide sulla redditività delle imprese in misura da non consentire loro di procedere a consistenti crescite dei salari. Un passaggio indispensabile per fronteggiare i residui tossici dell’inflazione 2022-23, spinti verso l’alto da una mini speculazione trasversale che tocca tutta la catena del valore, dalla produzione, ai trasporti, al commercio e in genere il terziario.

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Commercio e terziario che sono sempre più sostenuti dai flussi turistici stranieri che riescono a fare la differenza in positivo per un Pil, un po’ annichilito da un export meno performante e assillato dai potenziali dazi trumpiani. In uno scenario di un veritiero e sostanziale patto sociale è bene però anche soffermarsi sul tema del capitalismo italiano addormentato e sempre meno presente nelle sorti delle imprese di casa nostra, soprattutto del manifatturiero, ma non solo. Per oltre 50 anni i grandi capitalisti familiari, riuniti in maggioranza sotto il cappello della Mediobanca “cucciana”, hanno trainato le sorti dell’industria italiana, rendendola protagonista nel mondo. La Fiat, guidata dal tandem Giovanni Agnelli-Cesare Romiti, sbarcò oltre cortina e nella Cina di Mao, come nessun altro nel mondo occidentale e insieme a lei altri nostri campioni del capitalismo nostrano.

I cambi generazionali e la scomparsa dei tanti pionieri delle scorse generazioni, hanno spinto le famiglie a ridurre i rischi e puntare sulla finanza, prioritariamente estera, spostando pure la sede in nazioni con un fisco più accomodante. Questa ritirata imprenditoriale ha spinto le nostre brillanti filiere sempre più sotto controllo estero, condizione che ha ridimensionato l’interesse socio economico a livelli bassissimi, sovente con chiusure di impianti, delocalizzazioni. Confindustria che per decenni è stata guidata da esponenti del grande capitalismo italiano, dovrebbe puntare a risollecitarne un ritorno in campo e, nel farlo, avere al proprio fianco il governo per dare corso ad sistema tributario accomodante a chi riposiziona capitali italiani nelle nostre imprese. Una partecipazione finanziaria del capitalismo famigliare nei fondi di private equity che investono in Italia rappresenterebbe anch’essa un passaggio fondamentale per riguadagnare il controllo delle filiere.

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